Il Fatto di Bruno Fasani
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I destini calcistici della bella Verona

Ebbene lo confesso, sportivamente parlando sono poligamo. E mi danno tremendo fastidio quelli che per esprimere amore alla propria squadra hanno bisogno di infangare le avversarie. Amo il Verona. È qualcosa di analogo a una parentela. Come quando nasci e ti trovi a fare i conti con gli zii e i cugini, i nonni e le nonne...

Parole chiave: Bruno Fasani (325), Il Fatto (417), Verona (223), Calcio (135), Sport (139)

Ebbene lo confesso, sportivamente parlando sono poligamo. E mi danno tremendo fastidio quelli che per esprimere amore alla propria squadra hanno bisogno di infangare le avversarie. Amo il Verona. È qualcosa di analogo a una parentela. Come quando nasci e ti trovi a fare i conti con gli zii e i cugini, i nonni e le nonne. Senti che ti appartengono per ragioni dove il razionale viene dopo i sentimenti di appartenenza. Amo il Chievo. Più che un sogno diventato realtà, questa squadra è una metafora. La metafora del piccolo Davide che vince il Golia dei grandi affari e delle potenze economiche, ma anche di una provincia dove lo zelo del fare vince sulle chiacchiere dei progetti parolai.
Amo il Torino perché la vicenda di Superga aveva risvegliato le mie emozioni infantili, facendomi percepire l’ingiustizia del destino o, se volete, della morte che diventa la livella di Trilussa, dove le grandezze umane spariscono. Amo l’Atalanta, che sta sull’uscio della Champions League, portata in alto a volare con l’umiltà e le gambe straordinarie dei suoi giocatori e di un allenatore di poche chiacchiere e di tanti fatti.
Tifo per le squadre italiane tutte le volte che giocano contro squadre straniere. In quelle occasioni, più che colori particolari, vedo il tricolore.
Ma è a Verona che ho… piantato casa. Mi mortifica la retrocessione del Chievo, anche se voglio pensare ad una indisposizione momentanea. L’anno era partito male e se ci fosse stato un buon oroscopista forse ci avrebbe detto che le congiunzioni astrali erano tutte in opposizione. Sta di fatto che la città e i tifosi cliviensi sono lì a leccarsi le ferite di un’annata storta da raddrizzare al più presto.
Se il Chievo piange, il Verona non ride. Dato in partenza, da tutti i bookmaker, come la squadra fiondata dritta in Serie A, rischia di trovarsi come il prelato che entra papa in conclave e ne esce cardinale. È vero che un posto al sole se lo deve giocare con altre sei, ma l’andamento non è che invogli troppo a comprare le bandierine per la festa. Colpa di una conduzione proprietaria, dove di tutto si può pensare tranne che a passione sportiva che viene dal cuore. E giusto per non infierire, non è che i danarosi veronesi si mostrino particolarmente sensibili a farsi carico dei destini sportivi e di immagine della loro città. E se non funziona con le squadre di calcio, che ogni domenica hanno i riflettori nazionali, pensate cosa succede ai “palloni” di una biblioteca, dove da 1.600 anni, codici preziosi come l’oro vanno in gol solo per gli amanti del sapere, nell’indifferenza di chi potrebbe fare ma non vuole.
Per ora, a muovere qualche interesse sembra solo l’idea di uno stadio nuovo, intorno al quale girano le speranze di vedere volare dobloni come foglie d’autunno. Ben venga se questo serve a dare lavoro alla gente senza lavoro. Solo un piccolo suggerimento, detto da un incompetente. Lo so che i gusti sono gusti, ma il progetto che abbiamo visto illustrato sui giornali è contro il buon gusto anche dell’innamorato più cieco. Sarebbe bello, senza scomodare Renzo Piano, sapere cosa ne pensano architetti e ingegneri della ricca Verona.

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