Condiscepoli di Agostino
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Il vero sacrificio gradito a Dio siamo noi stessi

In realtà, sottolinea Agostino, noi offriamo i nostri sacrifici “non perché Egli abbia bisogno di qualche cosa, ma perché conviene a noi essere suoi” (De civ. Dei, XIX, 23.5)

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (175), Mons. Giuseppe Zenti (310), Vescovo di Verona (245)

In realtà, sottolinea Agostino, noi offriamo i nostri sacrifici “non perché Egli abbia bisogno di qualche cosa, ma perché conviene a noi essere suoi” (De civ. Dei, XIX, 23.5). Questo in conformità alle Scritture che dicono: “Tu sei il mio Dio, perché non hai bisogno dei miei beni” (Sal 15,2). Conclude Agostino con un pensiero di altissimo valore: “Suo splendido e ottimo sacrifico siamo noi stessi, cioè la sua città, della cui realtà celebriamo il mistero con le nostre offerte, che sono note ai fedeli” (De civ. Dei, XIX, 23.5). Ora, per essere sottomesse a Dio, è necessario che l’anima e la ragione esercitino il dominio morale sul corpo e sui suoi impulsi. Ma per questo devono essere sottomesse a Dio (Cfr. De civ. Dei, XIX, 25). Andando verso la conclusione del libro, Agostino riprende il tema della beatitudine e della pace: “Pertanto, come l’anima è la vita della carne, così Dio è la vita beata dell’uomo” (De civ. Dei, XIX, 26). Come dice il Salmista: “Beato il popolo il cui Dio è il Signore in persona” (Sal 143,15), di conseguenza “Misero è il popolo alienato da questo Dio” (Ivi). La pace è dono per ambedue le città: “Fino a che ambedue le città sono frammischiate, anche noi facciamo uso della pace” (Ivi). Ma, precisa ulteriormente, “La pace propriamente nostra anche qui è con Dio mediante la fede e in eterno sarà con lui nella visione. Ma qui la pace, sia quella che abbiamo in comune sia quella propriamente nostra, è tale da essere sollievo della miseria piuttosto che gaudio della beatitudine. Anche la nostra stessa giustizia, benché sia vera in forza del vero fine del bene, al quale si riferisce, tuttavia in questa vita è così grande che consiste più nella remissione dei peccati piuttosto che nella perfezione delle virtù” (De civ. Dei, XIX, 27). E di remissione dei peccati abbiamo sempre necessità, come ci ricorda la preghiera di Gesù: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Cfr. Ivi). Siamo fragili. Pecchiamo facilmente. Ci è difficile dominare gli impulsi malvagi. In ogni caso “si pecca, se non con una azione deliberata, certamente con una parola che sfugge o con un pensiero volatile” (Ivi). Di conseguenza, non siamo mai nella tranquillità della pace finale (Cfr Ivi). E Agostino approfondisce così: “In quella pace finale… non ci sarà bisogno che la ragione comandi ai vizi, che non ci saranno più; ma Dio comanderà all’uomo, l’animo al corpo e così grande sarà la soavità e la facilità di obbedire, quanto grande sarà la felicità di regnare. E là ciò sarà eterno in tutti e nei singoli, e sarà certamente eterno e, di conseguenza, la pace di questa beatitudine o la beatitudine di questa pace sarà il sommo bene” (Ivi).

Mentre l’approdo dei giusti è la pace della beatitudine, l’approdo dei malvagi è la miseria eterna nella morte seconda che non avrà mai morte: “Al contrario, coloro che non appartengono a questa città di Dio avranno miseria sempiterna, che si dice anche morte seconda… e per questo motivo questa morte seconda sarà più dura in quanto non potrà finire con la morte” (De civ. Dei, XIX, 28). Agostino conclude annunciando il tema del libro successivo: il giudizio di Dio sui due fini, il primo da raggiungere, ed è riservato ai buoni, l’altro da evitare, ed è riservato ai malvagi (Cfr. Ivi).

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