Gli orfani di femminicidio, testimoni del male assoluto e due volte orfani. Figli ai quali la mano violenta del padre ha strappato la mamma, oltre 1.600 dal 2000 ad oggi. Doppiamente orfani perché il padre sta scontando la pena in carcere oppure, come spesso accade, dopo l’omicidio si è tolto la vita. Non effetti collaterali o vittime secondarie, ma giovani vite segnate per sempre. Bambini o ragazzi scampati alla furia di chi avrebbe dovuto proteggerli insieme alla loro mamma solo perché non presenti all’omicidio. Ed è un calvario quello che devono affrontare: la lacerazione della perdita; il processo del padre in un’ambivalenza di sentimenti da destabilizzare chiunque; se minorenni l’affidamento ai nonni o ad altri familiari – diventando magari oggetto di contesa – o la collocazione in case famiglia. Frequenti le difficoltà economiche causate dalla perdita di entrambi i genitori. Quale tsunami si scatena nella loro mente e nel loro cuore? Chi se ne occupa? Che fine fanno quando i riflettori della cronaca si spengono? Abbiamo girato queste domande ad Anna Costanza Baldry, criminologa e docente di psicologia sociale alla Seconda Università degli studi di Napoli, ideatrice e coordinatrice del progetto switchoffeu (Supporting WITness Children Orphans From Feminicide in Europe ma anche acronimo di “spento”) i cui risultati verranno presentati a settembre in un incontro alla Camera dei deputati. Vicende diverse ma con un comune denominatore: il senso di solitudine dei protagonisti e l’inadeguatezza delle risorse messe in campo per aiutarli. Fondamentale il sostegno psicologico, per loro e per i familiari che se ne prendono cura, colpiti anch’essi dal lutto; eppure lo ha ricevuto soltanto il 15%, mentre solo nella metà dei casi l’intervento dei servizi sociali è proseguito oltre l’affidamento.
Il primo passo è il funerale. Esplode il dolore per non essere stati portati al funerale della mamma: «Ci sarei voluto essere perché l’avrei potuta vedere almeno nella bara». Ed anche la sofferenza per i silenzi degli adulti, le risposte vaghe alla loro ansia di verità. «Per l’elaborazione del lutto – spiega l’esperta – il primo passo è prendere consapevolezza di quanto accaduto, dare un nome alla realtà. La reticenza degli adulti finisce invece per alimentare fantasie angosciose e profonda vergogna”. In alcuni casi il senso di colpa per non essere riusciti a salvarla».
Di che cosa hanno bisogno? «Occorre abbattere con azioni e interventi adeguati il muro di silenzio e di non riconoscimento che li avvolge ; servono formazione specifica e linee guida, un protocollo d’azione omogeneo». Per Baldry è necessaria una legge di tutela a 360° che istituisca anche un fondo analogo a quello previsto per le vittime di terrorismo e mafia.
Solo così sarà possibile sostenere e accompagnare psicologicamente e materialmente in un percorso di rinascita le vittime incolpevoli di questa insensata violenza.