L’anno liturgico sta avvicinandosi alla sua conclusione e il suo scorcio viene popolato di simboli che hanno la funzione di esaltare l’attesa non tanto della fine quanto piuttosto di un nuovo inizio e della proposta dell’inaugurazione di un Regno divino che redima la storia e le doni compimento.Lo spunto per l’ultimo, sconvolgente discorso che Gesù tiene alla vigilia della sua morte, è offerto da un’osservazione fatta ai discepoli mentre Gesù si aggira nel perimetro del tempio di Gerusalemme. Di fronte allo splendore di quel complesso edilizio così caro al cuore di ogni ebreo, Gesù fa una dichiarazione lapidaria e sconcertante: «Non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».La dura sentenza di Gesù rimanda implicitamente all’annuncio del “giorno del Signore”: Dio giudica inesorabilmente la storia del mondo e del suo popolo. Di fronte a questa sentenza e a questa futura irruzione di Dio, l’atteggiamento degli ascoltatori di Gesù è infantile e preso solo dalla curiosità. Essi sono preoccupati del “quando” e del “come” (i “segni”), quasi per riuscire a sottrarsi con uno stratagemma dell’intelligenza e dell’astuzia umana al giudizio divino.Ma la banalità di questa curiosità è subito liquidata da Gesù a cui non interessa fare previsioni sul futuro quanto piuttosto orientare gli ascoltatori verso un atteggiamento esistenziale di impegno e di speranza. Egli usa la simbologia popolare caratteristica di un genere letterario in quel tempo molto in voga, quello apocalittico. Esso comprendeva scenari terribili di guerre, carestie, pestilenze, terremoti e «fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo». Ora, tutto questo è assunto da Gesù non per lanciare previsioni o segnalazioni sulla fine del mondo, ma per stimolare con linguaggio del tempo la conversione e le scelte di vita nei confronti del Regno di Dio.Ciò che Gesù ritiene essenziale è precisare il fine del mondo e della storia, più che spiegare la fine del mondo. Egli è venuto in mezzo a noi per affermare che quel “fine” deve essere costruito ovviamente già qui e ora. Quella di oggi è, allora, una liturgia di tensione, destinata a scuotere le coscienze, ma non a terrorizzarle.Le virtù della Chiesa, in attesa della pienezza del Regno, sono tre. Innanzitutto la testimonianza serena e coraggiosa. Nonostante il muro di odio che si leva attorno, nonostante la solitudine e l’isolamento, il cristiano fedele sa di non essere mai solo («io vi darò parola e sapienza»). Il Cristo è con noi fino alla fine del mondo.La seconda virtù è la perseveranza che, come ricorda Gesù, salverà le nostre anime. La tentazione del cedimento è forte, il desiderio di rientrare nella massa adattandosi all’opinione dominante è spontaneo, la debolezza della volontà è sempre in agguato. Ma c’è una certezza: in ogni prova «nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto».Infine, ecco la terza virtù: ce la suggerisce san Paolo scrivendo ai cristiani di Tessalonica nella seconda lettura. È l’impegno quotidiano nel proprio lavoro. L’apostolo invita a mangiare il proprio pane lavorando in pace, senza lasciarsi tentare da fanatismi disordinati, da agitazioni continue e falsi spiritualismi. Testimoniare, perseverare, lavorare sono in un certo senso variazioni delle tre grandi virtù: credere, sperare, amare. Sono queste le tre stelle che devono illuminare il nostro cammino mentre raggiungiamo il fine della nostra vita.