È la storia di un ricco mercante, temuto dai suoi servi per la sua mancanza di scrupoli e per l’avidità di denaro. Prima di partire per un lungo viaggio affida a tre dei suoi servi dei talenti, cioè somme ingenti, per farli fruttare o semplicemente per non lasciare improduttivo il capitale durante la sua assenza. Egli al suo ritorno esige il rendiconto.I due servi rimasti fedeli all’intenzione del mercante, mettono a profitto le loro capacità, guadagnano e raddoppiano il capitale. Pertanto vengono ben ricompensati dal padrone con un aumento di potere e con compiti di responsabilità. L’accento della parabola cade sul rendiconto del terzo servo, il quale porta avanti la magra scusa di aver conservato inutilizzato il suo denaro, perché preso da una timorosa prudenza, conoscendo l’avidità del padrone. Il servo timoroso doveva almeno cercare di mettere al sicuro il denaro affidato. Invece lo ha sotterrato, venendo meno al più elementare dovere di custodia. Il padrone si arrabbia alquanto con lui.La parabola dei talenti sembra a prima vista contrastare con l’amore e la soavità che distinguono la predicazione di Gesù. Tuttavia è in grado di inculcare una salutare indicazione per dare una spallata all’inattività. Più che sul castigo finale del padrone, che toglie al servo della colpevole inerzia il talento che non ha saputo far fruttare, conviene riflettere su due lezioni: una che passa quasi senza che ce ne accorgiamo, l’altra che risulta essere il fulcro della parabola. La prima lezione è la precisazione che ai tre servi i talenti sono distribuiti secondo la capacità di ciascuno. Non è un rilievo da poco. Il padrone è partito lasciando ai suoi dipendenti ampi margini di autonomia e di azione. Ognuno di loro deve industriarsi secondo il proprio stile per trafficare il capitale ricevuto. Per fare ciò occorre creatività e impegno personale, operare con fantasia, senza dimenticare la sapienza e la passione.Per noi va precisato che prima di mettere a frutto i talenti occorre accoglierli per ciò che sono: doni di Dio. Alla radice c’è sempre il suo dono. Da ciò discende non solo lo sviluppo delle proprie doti, ma anche – e ancor prima – riconoscere e accettare il dono della salvezza, aprendo totalmente a Dio il cuore e le mani. Dio non pretende che ognuno renda come sant’Agostino, san Francesco, santa Chiara o santa Teresa d’Avila. Ciò di cui chiederà conto è quanto si realizza in campo spirituale e umano, secondo le singole possibilità che Lui, nostro Creatore, conosce meglio di quanto le conosciamo noi stessi. La seconda lezione. Non c’è vita cristiana, come non c’è ombra di santità, senza un continuo, inventivo, tenace operare. San Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica che si è chiamati a vivere da “figli della luce” senza lasciarsi cogliere dalla tentazione del sonno: “Non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri”. Come i primi due servi della parabola, si è chiamati a non considerare mai i doni di Dio come fredde pietre preziose, ma come semi da piantare e da coltivare perché diventino spiga o albero. Al-Ghazali, mistico medievale, ricordava che “la fede ha tre dimensioni: fede è parola con la bocca, fede è verità col cuore, fede è opera con i fatti”.La lentezza associata a mancanza di decisione, il solo conservare il talento ricevuto e il riposare sugli allori sono atteggiamenti che non trovano giustificazione, se noi ascoltiamo bene la parabola. Alcuni pensano che il cristianesimo sia quietistico e rassegnato. Basterebbe questa parabola per suggerire il contrario.