La parabola del buon Samaritano è una delle più conosciute tra quelle narrate nei Vangeli. In questa parabola di Gesù non più di cento parole riescono a creare un quadro indimenticabile. È un racconto di straordinaria bellezza e di altissima spiritualità. L’evangelista Luca lo propone all’interno di un dibattito tra un dottore della legge e Gesù. Alla domanda avanzata dallo scriba – «Chi è il mio prossimo?» – Gesù in finale rilancia un’altra domanda: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». È qui il significato ultimo dello stupendo racconto del Samaritano. La prima domanda, infatti, cerca di definire oggettivamente e freddamente la categoria “prossimo”. La domanda di Gesù, invece, ci ricorda che, anziché definire “chi sia il prossimo”, bisogna diventare, agire, “essere prossimo” dell’altro. È il mettersi dalla parte di chi ha bisogno che fa capire come si diventi veramente prossimo. Nell’Antico Testamento “prossimo” era il connazionale, membro del popolo di Dio. Al tempo di Gesù si erano aggiunte altre restrizioni per cui praticamente il prossimo era membro della famiglia o del gruppo religioso di appartenenza. È su questo sfondo che deve essere letto il racconto magistrale di Gesù, che presenta al vertice della scena i gesti del Samaritano. Questi sono descritti con tenerezza, eppure il protagonista rappresenta una razza mista ed ereticale, profondamente disprezzata dagli ebrei. Gli atti del Samaritano sono dipinti da Gesù con estrema raffinatezza. Appena vede lo sventurato le sue viscere si commuovono. Il suo amore è attivo: fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo le tecniche del pronto soccorso orientale, lo carica su una cavalcatura, lo affida ad un locandiere, impegnandosi persino per il futuro e versando due denari, la paga di due giornate di lavoro per un bracciante.Il Samaritano della parabola, oltre che pronto e generoso, è anche discreto: quando il ferito si riprende, lo affida ad altri, non si ritiene indispensabile, si lascia sostituire tranquillamente; sostiene ancora la guarigione, pur scomparendo di scena. È un insegnamento sugli atteggiamenti che devono guidare i nostri gesti di carità, i molti e generosi slanci di aiuto verso i bisognosi, le iniziative pastorali che ci coinvolgono. “Farsi prossimo” è infatti servire la crescita dell’altro, e non servirsi dell’altro per scopi meramente personali o per nutrire a dismisura il nostro orgoglio.La fraternità cristiana trova nel buon Samaritano il suo emblema. È una fraternità che non conosce distinzioni di appartenenza, barriere razziali, politiche o religiose. Il Samaritano buono è immagine di Gesù che, come pastore premuroso, si china sulle ferite di questa umanità che siamo noi, la cura, la libera dal male, la restituisce alla vita. Egli è colui che sa patire insieme, che si lascia toccare in profondità dal dolore e dal bisogno dell’altro. L’interrogativo di fondo per noi è: come essere prossimo per chi ci vive accanto? Come tradurre in pratica quella serie di atteggiamenti proposti? Come offrire un aiuto degno, rispettoso e competente a questa nostra umanità stanca e sfinita per situazioni spesso non facili da decifrare e ancor meno da risolvere? Il Vangelo di oggi è chiaro e tagliente: non ci chiede soprattutto di sapere e parlare, ma di agire in modo evangelico: «Va’ e anche tu fa’ così».