L’imperativo negativo: «Non abbiate paura», ripetuto tre volte, caratterizza la pagina di Vangelo. Si tratta di un solenne invito di Gesù ad avere coraggio e a non lasciarsi paralizzare dalla paura. Giovanni Paolo II scelse questo imperativo per l’inizio del suo pontificato, agganciandolo immediatamente ad un altro imperativo, questa volta positivo: «Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». La celebre frase dei due imperativi divenne una sorta di programma di un pontificato che, superando paure condivise, vide l’apertura di porte sbarrate da decenni e la caduta di muri che nessuno pensava fosse possibile demolire, almeno a breve termine. Ciò avvenne anche grazie all’encomiabile fiducia nel Signore, che si rivela spesso come il miglior antidoto a qualsiasi forma di paura. Tale piena fiducia in Dio, appunto, può dischiudere provvidenzialmente squarci di sole in cieli in cui fino a poco prima c’era solo nebbia o oscurità.Tantissimi evangelizzatori hanno dovuto fare i conti con la paura, provocata da individui, da categorie di persone e, talvolta, anche da popoli, uniti nel ritenere che il cristianesimo fosse una vera minaccia all’ordine costituito. Pertanto per costoro era necessario opporsi ai cristiani e indicarli come la causa di tutti i mali o delle sciagure accadute, e così mantenere ben saldi nel proprio pugno gli interessi materiali e il potere. I documenti che raccontano i processi contro i cristiani ricordano sostanzialmente due aspetti. In primo luogo, il coraggio e la libertà interiore dei discepoli che, pur di fronte alla concreta possibilità di morire, non sono arretrati di un sol centimetro di fronte agli accusatori. In secondo luogo, il desiderio di spendere tutte le proprie energie per dare testimonianza a Gesù, nella convinzione che l’unica vera vita è quella eterna e che, nell’attesa di quella e amando profondamente questa vita terrena, si possono sopportare le angherie, i soprusi e le violenze.Gesù più volte, parlando agli apostoli e ai discepoli, ha messo in guardia sui rischi della missione, partendo dai rischi che lui stesso stava correndo, dei quali aveva piena avvertenza. Li ha informati che avrebbero dovuto mettere in conto di soffrire per la verità, affrontare l’inimicizia, lo sconforto, l’abbandono anche dei più vicini. Nemmeno la morte violenta doveva incutere paura o terrore. L’unica vera paura che dovevano avere era di offendere Dio o di oscurare il suo progetto di salvezza.Gesù espone i motivi per i quali i discepoli possono sentirsi incoraggiati. Innanzitutto hanno il nobilissimo compito di trasmettere la Parola che è stata a loro consegnata. Questa va proclamata «dalle terrazze», che, nelle semplici abitazioni del tempo, erano i luoghi più idonei dai quali si poteva dare la massima eco alle parole di festa o di minaccia per l’intero villaggio. Poiché la trasmissione del messaggio divino si basa sulla presenza di Dio, nella predicazione nessuna forza umana potrà arrestarla. Il secondo motivo che infonde coraggio evidenzia i limiti della perdita che il testimone subisce. I persecutori e i carnefici possono togliere soltanto la vita terrena, non quella eterna. Il terzo fa appello alla provvidenza del Padre. Al suo sguardo non sfugge se un passero cade nella rete dell’uccellatore. A maggior ragione sarà attento ai pericoli che gli evangelizzatori corrono. Dio è al corrente di tutto ciò che li riguarda. Che Lui lo sappia, dovrebbe bastare a infondere fiducia nei suoi discepoli, anche quando dovranno confessare coraggiosamente la loro fede nei tribunali.“Martire” significa “testimone”. Pertanto questo appellativo può essere attribuito anche alle persone che, pur senza versare il sangue e senza persecuzione, vivono la loro vita accompagnata da sofferenze fisiche, spirituali e familiari. I martiri elevati all’onore degli altari e anche coloro che hanno fatto, a volte nascostamente, della loro vita un altare a Cristo ricordano il sublime valore della testimonianza, che spinge a seguire Gesù e a superare le mille paure della vita. Il loro sangue, versato fisicamente o metaforicamente, ne è la prova. Lo scrittore cristiano Tertulliano (155 - 230 circa), era fermamente convinto del positivo contagio del testimone-martire, al punto da scrivere: “Il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani”.