Probabilmente nei prossimi mesi, o settimane, i decreti di attuazione del cosiddetto Jobs Act riguarderanno il salario minimo garantito. Riguarderà tutti quei lavoratori non coperti dal contratto nazionale di lavoro, e in Italia rappresentano circa il 20 % del totale. Non sono molti ma indubbiamente è una percentuale importante. La paga oraria di cui si discute varia dai 7,5 euro ai 6,5 euro. Ovviamente essendo al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali l’importo netto mensile si aggirerà attorno ai 700 euro al mese. Non mi sembra sia una grande idea creare povertà o situazioni al limite della stessa. Nel nostro Paese i salari sono stabiliti dai contratti nazionali di lavoro e dai contratti aziendali. Dove non ci sono i contratti aziendali ai lavoratori viene garantito il contratto nazionale che è sicuramente più elevato dell’ipotesi prevista del governo. La quota di lavoratori non coperti dai contratti collettivi è da ascrivere soprattutto al lavoro autonomo, vero o mascherato. La strada allora è quella di ricondurre nell’ambito del lavoro subordinato, il lavoro autonomo mascherato, non di introdurre un salario minimo, che, peraltro, rischia di offrire una sponda ai contratti “pirata”. Il tema dovrebbe essere quindi quello di dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione, che prevede la possibilità di estendere a tutti la cogenza del minimo contrattuale. In questo modo avremmo la certezza della tutela dei lavoratori con minimi sensibilmente più alti rispetto a quelli ipotizzati e, comunque, determinati dalla contrattazione. Stabilire per legge l’importo minimo salariare estromettendo la contrattazione nazionale non è particolarmente democratico. Quando andiamo a comperare un bene, per esempio un’automobile, il contratto d’acquisto che viene stipulato è tra venditore e acquirente e terrà conto di alcuni elementi come gli optional, la modalità di pagamento o altri elementi. Concludendo la metafora, è ipotizzabile che il governo possa decidere lui quanto dovrà essere il costo minimo di un’auto? Credo che sia facilmente immaginabile che alcuni imprenditori, per convenienza, possano decidere di avviare un percorso per disdire l’applicazione dei contratti nazionali e applicare il più conveniente salario minimo. A questo punto però i soggetti in campo devono scoprire le carte e dire cosa vogliono realmente. Il governo deve dire se intende ridurre ulteriormente il costo del lavoro riducendo per legge i salari e se intende far ripartire i consumi interni creando maggior povertà e minore potere d’acquisto. Ci dicano se pensano a un Paese in grado di competere esclusivamente con i Paesi emergenti intervenendo sul costo del lavoro o se decidiamo d’incentivare produzioni manifatturiere-industriali ad alto valore aggiunto dove la competizione non è solo sul costo del lavoro, ma sulla qualità del prodotto, sull’innovazione, sui processi produttivi e sulla capacità di esserci sui mercati. Credo sia evidente a tutti la determinazione e il decisionismo che il governo in questi mesi ha perseguito nel modificare il mercato del lavoro, nel porre mano ai rapporti di lavoro, agli ammortizzatori sociali. Si deve però altrettanto registrare la timidezza dell’esecutivo nell’intervenire su aspetti altrettanto importanti per fare ripartire l’economia dando fiducia alle imprese. Mi riferisco alla lotta alla corruzione, caratteristica molto italiana, sempre più presente e ramificata. Lotta all’evasione fiscale e riforma fiscale. Da anni invocata e denunciata come macelleria sociale, ma risultati pochi o nulli. Riforma della pubblica amministrazione per combattere la burocrazia imperante necessaria solo per permettere alla corruzione di moltiplicarsi. Mi verrebbe da dire: caro Governo, è facile fare i forti con i deboli quando questi sono anche disoccupati e ricattabili...