“Bello. Freddo forte. Passaggio aerei. Scritto a casa. Andato a prendere ammalato con barella. All’armi. Tutto bene”. È il 27 dicembre 1942: Sandro Carpanè, colognolese classe 1920, da cinque mesi si trova sul fronte russo; annota col lapis poche parole su un piccolo taccuino. È il compagno di viaggio che gli permette di tener traccia di ciò che accade intorno a lui: un resoconto di guerra essenziale, scampato alla ritirata dalla Russia e giunto fino a noi. Da questo cimelio familiare, insieme a qualche foglio manoscritto e a numerose testimonianze orali, è partita la ricostruzione Pagine dal fronte (AlpineStudio), libro a tratti romanzato che racconta la storia di Sandro. L’autore è il figlio Lorenzo Carpanè, filologo, docente universitario e consulente, già collaboratore del nostro settimanale. «Da anni lavoravo a questo testo, il 2020 mi ha permesso di concluderlo – spiega –. Il diario di mio papà è stato il pretesto per recuperare la memoria personale e quella collettiva: le vicende che accadono ai nostri genitori ci segnano, nel bene e nel male, si riverberano sulle generazioni successive. Io sono nato nel 1961, una distanza minima dalla fine della guerra, a ben vedere: il racconto di mio papà è stato fondamentale per rivivere quella tragedia, portarla dentro e superarla». Una conoscenza che rischia di perdersi con la scomparsa dei testimoni diretti, specie nelle generazioni che hanno sempre vissuto in epoche di pace. Col distacco dello studioso, il libro prova a costruire un legame tra la grande storia e la microstoria. Partendo dalla vita dell’alpino Sandro, figlio di mezzadri di Colognola ai Colli, licenza elementare ma cervello fino, appartenente a una generazione che aveva avuto i genitori in guerra, accettata come fatalità della vita. Giovanissimo, fa le prime esperienze belliche sul fronte francese, nel 1940; poi è inviato sul fronte greco-albanese. Nell’estate del ’42, a soli 22 anni, da Asti è spedito a combattere le forze sovietiche con l’Armir (Armata italiana in Russia). Sandro fa parte della Divisione Tridentina, battaglione Verona; lui e le altre penne nere marciano quasi un mese prima di raggiungere il fronte russo, passando lande sterminate e isbe dai tetti di paglia. Ci sono tende da allestire, trincee e postazioni da scavare, turni di guardia e di pattuglia da assicurare. “Scritto a casa. Notte calma. Con un po’ di mal di denti”, annota Sandro; “Dormito poco e nel duro”, “Ascoltato S. Messa. Sempre freddo. Il morale è abbastanza buono”. Parole misurate e composte, com’era lui. «In quei mesi mio papà faceva il portaferiti, quindi non fu coinvolto direttamente in operazioni belliche», spiega l’autore. Di morti però ne vede e ne trasporta diversi, colpiti da cecchini russi o feriti dalle esplosioni nemiche. La temperatura è di meno 40 gradi nel gennaio 1943. Il gennaio della rottura del fronte orientale, con l’inizio della ritirata, il 16 del mese; il gennaio in cui l’Armata Rossa ostacola il ripiegamento degli italiani, il gennaio della battaglia di Nikolajewka (il 26). Il 21 Sandro è ferito a una gamba: “Lì per lì pensavo alla mia fine, perché non camminare voleva dire quasi morire sulla neve”, racconterà poi. Entra in un’isba e si fascia le ferite: il sangue non esce, unico vantaggio di quel tremendo gelo. Si fascia gamba e piede tagliando un pezzo di pastrano, poi chiede a un tenente medico come potrà mettersi in colonna e camminare, in quello stato. “Figliolo caro, che posso fare io? Cerca se trovi qualche mulo e arrangiati”, è la risposta. È solo l’istinto di sopravvivenza a farlo resistere. Assiste a Nikolajewka, stando su un piccolo slittino trainato da un mulo: “Eravamo una massa di inermi che sperava e pregava che i nostri fratelli rompessero il cerchio”, dirà più avanti. Quella notte incontra un paesano, Davide Corso, che si offre di stargli vicino e aiutarlo. “Quando, ferito, non avevo niente da mangiare e non riuscivo a procurarmene, lui mi ha dato mezza della sua scatoletta di carne. Il giorno dopo lo vedo disteso per terra, congelato, morto”: ecco l’eroismo. Non occorre esagerare ciò che accadde, ripeteva nelle occasioni d’incontro tra reduci: “La nostra, dico del nostro battaglione, la nostra vera guerra è stata sopravvivere durante la ritirata. Sì, abbiamo anche combattuto, ma non serve inventarsi le cose”. Passa 14 giorni tra la vita e la morte prima di riuscire a salire su un camion e raggiungere l’ospedale militare il 1° febbraio. “Ammalato. Piede congelato. Patito gran fame e sofferto tutto. Dopo tanto mangiato un bel po’. Sembra un sogno. Dio sia lodato”, sintetizza Sandro. Un lungo viaggio in treno lo conduce il 14 febbraio all’ospedale militare di Baggio, a Milano; quindi andrà a Como, per la convalescenza. «C’erano ferite fisiche e non solo, da guarire: tornando, molti si chiedono qual è il senso di quella guerra – ricorda il figlio –. L’8 settembre 1943 deve riprendere servizio: è di stanza a Caprino, ma con l’armistizio mancano gli ordini. Rientra a casa e aderisce alla Resistenza col nome di Rude, entrando nella Brigata Manara con compiti di sorveglianza. Non per eroismo: scelse però da che parte stare». Un giorno d’agosto del ’44, sulla strada che porta al Monte di Colognola, s’imbatte in un tedesco armato: i due si guardano, si studiano, poi uno fa cenno all’altro di andarsene; tragedia sfiorata. Sandro, alpino e partigiano. Memoria storica in famiglia, a scuola, nelle adunate. Ma pure uomo gentile che nella vita è stato tanto altro: marito di Rita – il cui fratello, Riccardo, suo amico, rimase disperso in Russia –, padre di Silvana, Fabio e Lorenzo, nonno amorevole, lavoratore diligente e pure assessore comunale negli anni ’60. Nel 2007, a 87 anni, è morto; il suo ricordo invece continua a vivere.