«Oddio, ho dato il prosciutto al bimbo! E adesso?». Se ne pentirà amaramente, cara signora; ma può sempre consolarsi al pensiero di non avere somministrato al pupo il ben più pericoloso wurstel, il cibo che da qualche decennio sta sterminando il popolo germanico...
I Romani antichi, gente pragmatica, dicevano: est modus in rebus. Ma chiaramente, se non fai affermazioni apocalittiche, chi ti considera? Se spieghi, chi ti segue? E così da qualche giorno il mondo è entrato nell’incubo carnivoro, visto che dalle parti dell’Organizzazione mondiale della sanità si è messo al bando il consumo delle carni “lavorate” (salumi, insaccati...) in quanto cancerogene – a loro dire – come le sigarette. Mentre le carni “rosse” (un po’ tutte le altre) lo sono potenzialmente, cioè un po’ meno ma forse sì: stomaco e colon i bersagli, com’è ovvio dei cibi. La cosa sarebbe un po’ più complessa di come i mass media hanno immediatamente rilanciato la notizia con grande enfasi, ma tant’è.
Effetto immediato: caleranno i consumi nei Paesi occidentali, in quelli cioè in cui il problema numero uno è il grasso in eccesso e non la fame. Negli altri Paesi il consumo di carne è da sempre – giocoforza – assai ridotto: si muore precocemente per qualcos’altro, beati loro. Qui, se mangiamo un cotechino al giorno, rischiamo grosso.
Ma lo sapevamo anche prima, che se non c’è modus in rebus, le cose non volgeranno al meglio: i nostri nonni erano tormentati dall’incubo di non avere colesterolo e trigliceridi a sufficienza per sé e per i propri figli; noi oggi siamo costantemente alle prese con analisi del sangue, pastigliette, il diabete dietro l’angolo e il terrorismo alimentare.
Cosa fare, dunque? I più furbi salgano immediatamente sul treno del vegetariano: si prevede una forte crescita degli affari. Un Dopoguerra speso per conquistare la fettina nel piatto, per arrivare a cancellarla e sostituirla con il miglio. O con il farro, decisamente più buono di quel cibo per canarini.
Se invece vogliamo affrontare la questione in modo più serio, cioè puntando il dito su stili di vita che hanno sostituito il cucinare con il mangiare qualsiasi cosa che non ci obblighi a perdere più di dieci minuti di tempo, ecco: è ora che si riscopra la virtù di stare davanti ai fornelli e non solo di guardarli alla televisione tra Masterchef e La prova del cuoco. Perché il cibo pronto è ovviamente soprattutto salumi, formaggi, surgelato precotto... Lo capisce pure il bimbo, che non est modus in rebus.
Il pesce è buono, ma chi si azzarda a spinare un’alice o a pulire una seppia? L’arrostino di vitello lo divorano tutti, ma chi ha due ore di tempo per cucinarlo? Il radicchio dell’orto è un sogno, ma ci mette mesi a crescere e poi raccoglierlo, pulirlo, lavarlo... quando c’è la busta dell’insalata – così saporita che abbiamo capito come si riutilizzano le bottiglie di plastica vuote – già pronta da aprire e servire.
È così che ci facciamo del male. Mangiando male. Una fetta di prosciutto crudo – non parliamo di divorare un maiale a colazione – appena tagliato e accompagnato da pane casereccio o da un po’ di melone; una di salame casalingo appoggiato su polenta abbrustolita e calda producono endorfine in quantità che migliorano la nostra salute, insomma ci fanno godere. E ci fanno vivere con il sorriso quei mesi in meno che camperemo se ci avvicinassimo al cibo con la circospezione che si dedica ad un farmaco. Come diceva Woody Allen, si punta a vivere una settimana in più, ma quella settimana pioverà tutti i giorni...
Ma mentre scrivevamo queste ultime righe, c’è assalito un atroce dubbio: la polenta è ok, cibo non di origine animale, lontano un chilometro dalla famigerata carne rossa. Ma il mais è la base dell’alimentazione dei bovini, poi il contenuto vitaminico è quasi nullo, quello glicemico invece alto. E poi la brustolatura, quelle righe scure che l’Oms dichiara essere peggio del topicida... Dove ho messo i semi di lino?