Se il governo decidesse di inventarsi una tassa sui selfie, ci sarebbero più soldi nelle casse statali, o meno selfie. In entrambi i casi, una buona notizia. La nevrosi di autoscatti paralizza il Paese, ormai troppo impegnato a sorridere davanti allo smartphone per occuparsi di altro. È durissima dar ragione a chi in genere inizia la frase con “ai miei tempi”, ma in effetti ai loro tempi, ai nostri tempi, la foto-ricordo era fedele al nome: sarebbe finita in qualche solaio impolverato, ma un giorno lontano qualcuno l’avrebbe tirata fuori, e cominciato a ricordare. La gita a Venezia, il primo bagnetto, il campo estivo... Comunque qualcosa di significativo, e già questo bastava. Cosa ricordano invece due miliardi di immagini depositate su qualche archivio elettronico? Situazioni decisamente più irrilevanti, ma che – nella frenesia del “clicca, tanto ci mette un attimo” – si sente la necessità di immortalare: io con la scarpa slacciata, io assieme a uno sconosciuto (così, tanto per fare), io davanti a un qualsiasi edificio, chisseneimporta se sia un monumento storico o un palazzo come tanti. Comunque io. Il confronto tra le due epoche è imbarazzante. Ma capiterà anche di non autofotografarsi, di non mettersi al centro dell’attenzione? Certo, e generalmente è per un motivo: il meteo. Così, alla prima nevicata, in città, gli stessi giovani che fino a poco prima avevano preso per i fondelli gli anziani del bar («Parlano solo del tempo, non si annoiano?»), inondano Facebook e Twitter di foto della città imbiancata. E – questo è più triste – ciascuno dalla propria finestra o dal proprio balcone, come se non ci fosse altro punto di osservazione. Va bene, non si deve generalizzare, neppure sui giovani d’oggi. E se i giovani di ieri difficilmente si fanno prendere dalla mania dei selfie (anche se alcuni sono scatenati, e stanno vivendo una seconda adolescenza alla soglia dei 60 anni), è più per mancanza di confidenza con la tecnologia che per saggezza. Poi diciamolo, anche a costo di contraddirci: il selfie ormai è un dato di cultura, come lo sono stati, ai loro tempi, il pantalone a zampa di elefante o il lettore cd. È un modo per dire “ci sono”, anzitutto. Una richiesta di attenzione, un tendere la mano verso relazioni meno virtuali di quanto si dica. Al tempo stesso, l’anziano che inizia la solita brontolata con «ai miei tempi», spesso chiosa: «Il troppo stroppia». Ancora una volta: come dargli torto? L’ultimo caso è quello dei tre ragazzi di Varese (due 14enni e un 15enne) che, sorpresi a rubare vestiti, hanno chiesto di fare un selfie con gli agenti, per ricordare la loro prima denuncia. Domanda respinta (e ci mancherebbe altro), ma, visto che proprio ci tengono, la speranza è che ci pensino le famiglie a non far dimenticare ai baby ladruncoli che rubare non è un gesto da folklore locale. Intanto, nella ricerca di rompere la monotonia, c’è chi si è fatto il selfie sulle rotaie con il treno in arrivo, chi davanti alla Costa Concordia, chi in ospedale assieme a una paziente deceduta. Autori nonché protagonisti principali degli scatti non coglievano che, rispetto ai loro sorrisoni, erano più importanti rispettivamente un servizio pubblico, i 32 morti della tragedia di Isola del Giglio, una vita che si spezza con una famiglia in lacrime. Nell’ultimo caso, poi, l’infermiera romagnola che ha realizzato il selfie è anche indagata per decine di morti sospette avvenute in ospedale, ma questa è un’altra – e più triste – storia. Rimane il fatto che il desiderio – legittimo – di autonomia può produrre mostri. E questi mostri rischiamo di essere noi, quando restiamo affascinati da quelle aste che permettono di scattare selfie da una distanza superiore rispetto alla lunghezza del nostro braccio. Senza pensare che potremmo invece chiedere, anche al primo che passa: «Scusi, mi scatta una foto? Deve premere qui». Certo, potrebbe essere un po’ imbranato, e la foto venire mossa. Ma è il rischio che si corre, a voler conoscere delle persone.