In questa domenica siamo di nuovo di fronte ad una parabola che ripresenta in maniera forte il tema della fine e del rendiconto conclusivo conseguente. La parabola è molto nota, soprattutto per l’interpretazione, non esatta, data al termine “talento” compreso come complesso di qualità naturali, sull’uso corretto delle quali si sarà chiamati a giudizio. Ma l’evangelista dice che il padrone-Signore, che affida i talenti ai suoi servi-collaboratori, fa la consegna in quantità diverse a seconda delle capacità di ciascuno e quindi alle qualità personali di ogni servo è affidata una quantità di denaro, un compito, proporzionato alle sue doti: ciascun servo è chiamato a rispondere del denaro a lui affidato e non delle sue doti personali, è da notare poi che le cifre assegnate ai servi sono spropositate, secondo il modo tipico delle parabole di presentare situazioni paradossali per dare forza al messaggio. La parabola si presenta con una struttura molto articolata, in tre tempi: il padrone deve partire e affida i suoi beni ai servi; i servi trafficano secondo diverse modalità la cifra ricevuta; alla fine il padrone chiama a rapporto i suoi servi, con una attenzione particolare al servo che non ha trafficato il denaro che gli è stato affidato. L’elemento decisivo del racconto è il fatto che i tre servi si differenziano in maniera evidente per il comportamento durante l’assenza del padrone e, inevitabilmente anche nella relazione finale: due fanno fruttificare il deposito avuto in consegna, uno no; i primi due sono lodati e premiati dal padrone, mentre il terzo è rimproverato e severamente punito. Lo schema profondo del racconto pertanto consiste nel diverso esito finale di determinati comportamenti ed è lo schema del giudizio che più volte si incontra nel vangelo di Matteo. Ora, se sopra abbiamo detto che i talenti non rappresentano le doti naturali di ciascun servo, possiamo cercare di comprendere che significato hanno nel contesto della parabola. Se il padrone che parte è il Cristo, che cosa lascia ai suoi servi? Nel linguaggio metaforico della parabola si dice: «Consegnò loro i suoi beni» (Mt 25,14); si usa cioè il verbo tipico della “tradizione” (consegnare) per caratterizzare i beni affidati come il patrimonio stesso affidato da Cristo alla sua comunità: si tratta dunque del messaggio cristiano, quello che nelle lettere cosiddette pastorali è chiamato il “deposito” che il discepolo è esortato a custodire con fedeltà (cfr 1 Tm 6,20; 2Tm 1, 12.14). In questa prospettiva è comprensibile che le diverse capacità abbiano prodotto risultati diversi, proporzionati all’incarico affidato in partenza, però l’esempio dei primi due servi, che con quantità diverse lavorano e portano frutti in quantità diversa, serve per dire che questo tipo di differenza non è significativo; alla fine tutti e due riceveranno la stessa lode: «Bene, servo buono e fedele sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone», (Mt 25,21):entrambi sono “servi buoni”. Il terzo servo, che denota un animo di schiavo, dominato dalla paura, non ha fatto niente perché il denaro affidatagli portasse un qualche frutto, l’unica preoccupazione è stata quella di conservarlo inalterato, eppure dalle parole del padrone si capisce che egli si sarebbe accontentato anche solo del modesto frutto corrisposto dai banchieri: il padrone risulta tutt’altro che esigente, conoscendo le capacità del terzo servo, il padrone avrebbe valutato positivamente anche solo un investimento bancario. Fuori dalla metafora, che cosa dice a noi oggi questa parabola? La vita di ogni persona, nel progetto di Dio è pensata non per rimanere immobile e senza scopo ma, arricchita dei doni che il Vangelo porta, come ogni vocazione, è orientata ad una missione (produrre frutto, arricchirla col mettere a buon uso doni che Dio dà a ciascuno) in modo da presentarsi al rendiconto finale con una vita ricca di frutti quale risultato della nostra disponibilità a corrispondere col nostro impegno al dono gratuito dell’amore di Dio. La vita e la grazia di Dio sono cose troppo serie per non prenderle nella dovuta considerazione, non sono beni dei quali avere scarsa considerazione, Dio non domanda a noi di realizzare un guadagno ideale, astratto, ma di corrispondere alla grazia ricevuta in proporzione alle nostre capacità: non ci sarà chiesto niente di più del frutto che avremmo potuto portare.