Quando tonnellate di veleno e amianto vengono sotterrate a due passi da intere coltivazioni, sarebbe ingenuo – e irresponsabile – pensare che a farne le spese siano soltanto gli agricoltori. Perché quei frutti di morte da qualche parte dovranno pur arrivare. Chissà quanti bambini li mangeranno. Così, sapere che l’informazione italiana è malaticcia, come registrato nell’ultima indagine di Reporter senza frontiere, è una pessima notizia per tutti, certo non solo per editori e giornalisti. Sorridere davanti al 73° posto dell’Italia (ehi, anche il Senegal ci ha sorpassato! Dai, che la Tanzania l’abbiamo tenuta dietro...), beh, non è proibito. In fondo, ben venga prendersi in giro dopo uno scivolone o una brutta storta: qui però il male è peggiore, e tra autoironia e autocritica è meglio la seconda. Ci deve essere un motivo se, nella classifica della libertà di stampa, mezza Europa (partendo da Finlandia e Norvegia) è nei primi venti posti, mentre noi siamo stretti tra Moldavia e Nicaragua. E infatti c’è: troppe aggressioni ai giornalisti – 43 casi nel 2014, denuncia il report – più incendi a sette auto di cronisti che, evidentemente, sapevano troppo. Intimidazioni, minacce, come quelle a cui ha resistito Sabrina Pignedoli de il Resto del Carlino, finita nel mirino di alcuni esponenti della ‘ndrangheta in salsa padana (compreso l’ex autista del questore di Reggio Emilia). Non c’è solo questo: Reporter senza frontiere punta anche il dito, e a ragione, contro lo strumento della denuncia per diffamazione che spesso si trasforma in una mitragliatrice a intimidazione puntata sull’informazione libera. Chiariamo: se un giornalista diffama, che sia indagato, processato e condannato, poche storie. Anche se l’errore è stato compiuto in buona fede: sono i rischi del mestiere, e altri mestieri – dal muratore al chirurgo – hanno rischi ben peggiori. Ma se la querela si trasforma sistematicamente in strumento per mettere pressione sui cronisti (costringendoli a importanti spese legali, preoccupando gli stessi editori), poi non stupiamoci se nella classifica sull’informazione la Svezia non la vediamo neanche col binocolo (mentre la Serbia sì, ma comunque ci sta davanti). Possibile però che siamo messi così male? Chi metterebbe la mano sul fuoco sul più alto livello di libertà di stampa in Georgia rispetto all’Italia? Quanti cronisti dello Stivale invidiano la Romania, di 21 posizioni più avanti? Se ne può discutere. Soprattutto perché la libertà di stampa, di per sé, non ha unità di misura, come invece la lunghezza e il volume. E la classifica di Rsf è stata elaborata sulla base di un questionario. Domande elaborate, destinatari competenti (giornalisti, ricercatori, attivisti in organizzazioni a tutela dei diritti umani), ma pur sempre un questionario. Paese che vai, impressione che trovi, verrebbe così da dire, tirando in ballo esempi che spaziano dai regimi totalitari – dove l’enorme consenso non è sinonimo di qualità di governo – alla differenza che passa tra temperatura reale e temperatura percepita. Teniamone conto, però: magari la libertà di stampa non avrà 39 di febbre, ma 38,3 (se siamo ottimisti, altrimenti sfiora i 40); in ogni caso buttare via il termometro, in assenza di strumenti migliori, non appare una grande idea. La tentazione c’è, eccome: l’assoluzione di se stessi – con scarico di responsabilità su terzi inclusa – resta il nostro sport nazionale, in ufficio come allo stadio (arbitro cornuto!). Al lavoro, dunque. Per un’informazione più libera dalle minacce occorre una società più coraggiosa, determinata, altruista. E un giornalismo più credibile, senza dubbio. Per fare un esempio tra i tanti: i quotidiani che oggi si compromettono legando il loro nome all’azzardo on line, con che coraggio – e con quale libertà – potranno raccontare domani i drammi dei malati di gioco? E questa, no, non è un’altra storia.