In uno scenario incerto che si prolunga ormai da oltre 7 anni e con lo spettro – paventato dalla Confindustria pochi giorni fa – di una “stagnazione secolare”, il mercato interno ha bisogno di fiducia. Ciò che il Governo sta facendo, soprattutto per bocca del suo ministro dell’Economia, credo vada in questa direzione: amplificare piccoli segnali di ripresa per generare un clima positivo nel Paese, magari non scevro di effetti politici positivi nel breve periodo.
Tuttavia, appare presto per “cantare vittoria”: come molti acuti osservatori hanno fatto notare già agli albori della crisi, non ci troviamo in una congiuntura fisiologica, bensì in una vera e propria crisi che non può riportare la situazione allo stato pre-2008 senza alcuni paradigmatici cambiamenti strutturali. D’altra parte, sarebbe preoccupante – da un punto di vista economico, oltreché sociale ed etico – se l’economia uscisse dalla crisi senza aver imparato alcune “lezioni” importanti, che la potranno salvare da nuove, dolorose crisi future.
A Verona gli effetti della crisi sono stati parzialmente attenuati, perché si sono inseriti in un contesto particolare: il nostro territorio, per vocazione e per scelta, ha da molto tempo intrapreso una strada di profonda differenziazione delle proprie attività economiche, senza legare eccessivamente le proprie fortune ad un solo settore, con tutti i rischi che ciò avrebbe comportato (come accaduto per altri sistemi territoriali quasi “mono-settore”). Inoltre, alcuni comparti economici storicamente radicati nel territorio hanno subito molto meno la crisi: si pensi, ad esempio, all’agroalimentare ed al vitivinicolo.
Anche i dati medi relativi alla ricchezza pro-capite disponibile appaiono decisamente al di sopra della media nazionale e, spesso, anche della regione Veneto, in particolare in città ed in alcune specifiche zone della provincia (Valpolicella e Lago veronese). Positivo è, poi, il dato sugli occupati, sia nel raffronto con i dati nazionali e regionali, sia esaminando il trend in controtendenza nel 2013 e 2014 rispetto al resto del Paese. Nondimeno, alcuni dati non vanno trascurati: ad esempio, dal 2010 in poi, il numero dei fallimenti nella provincia è raddoppiato rispetto ai dati degli anni precedenti, addensandosi, in particolare, nei settori manifatturiero e delle costruzioni, tanto che in quest’ultimo si concentrano circa un quarto dei fallimenti annui. Inoltre, il numero delle imprese attive è costantemente calato a partire dal 2010, evidenziando un complessivo saldo negativo tra cessazioni e nuove costituzioni di quasi il 12%, alla fine dello scorso anno. Ci sono poi alcuni casi – non numerosi, ma significativi – di crisi aziendali che hanno prodotto licenziamenti e l’impoverimento del settore manifatturiero.
Tutto questo dice di un territorio che sta sommessamente cambiando e che non ha ancora individuato appieno la sua vocazione, non mettendo a frutto tutto il proprio potenziale di sviluppo.
Penso, in particolare, all’esigenza di puntare fortemente all’istruzione e alla formazione, fattori unanimemente considerati propulsivi di crescita imprenditoriale, o, ancora, all’assenza di una strategia sinergica per la valorizzazione di un territorio a vocazione turistica e di produzioni d’eccellenza (piuttosto che, ahimè, edilizia come è stato nei decenni scorsi ).
Inoltre, mi pare vi sia la necessità di uno sforzo di creatività nella direzione dell’innovazione sociale, oltreché tecnologica: i modelli tradizionali di impresa, anche a Verona, potrebbero essere arricchiti da esperienze innovative che conciliano la capacità di stare sul mercato con una rinnovata attenzione verso il sociale e l’inclusione… Qualcosa di importante già si sta facendo. La cultura d’impresa rischia di impoverirsi se non è aperta socialmente ed eticamente: Verona ha bisogno di mantenere le “porte aperte”, per non fare dei suoi timidi successi una rischiosa trappola autolesionista.