Un caso di coscienza per riflettere sul rapporto tra verità e giustizia

Un caso di coscienza per riflettere  sul rapporto tra verità e giustizia
Alla veneranda età di 94 anni Clint Eastwood ha dato nuovamente dimostrazione della sua grandissima bravura alla regia di un film per niente semplice e ancor meno banale. Justin Kemp (Nicholas Hoult) viene selezionato come giurato per un caso di omicidio: il giovane James Syhthe sembra aver ucciso la propria compagna. Il dispiegarsi del processo, però, lo porta alla scoperta di una informazione sconvolgente: potrebbe essere lui stesso il vero colpevole, non l’imputato. Il protagonista, ex alcolista e in attesa di diventare padre (dopo un aborto spontaneo della moglie), deve affrontare un dilemma morale: far condannare un innocente, con un passato torbido e violento, o farsi avanti come vero colpevole (seppure per errore) e quindi compromettere definitivamente la sua vita familiare andando in carcere? Cercare di convincere gli altri giurati dell’innocenza di Synthe oppure mettersi in salvo? Domande che ne portano altre non meno importanti: quale rapporto tra giustizia e verità? E quindi tra politica e morale? Quesiti che, idealmente, guidano anche il pubblico ministero Faith Killebrew (Toni Colette): dapprima sostenitrice della colpevolezza di Synthe, in un secondo momento non più così convinta. Anche gli altri personaggi che animano il racconto trovano un loro spazio in cui vengono definiti: dall’imputato alla moglie di Justin passando per i giurati che, in qualche modo, diventano rappresentativi delle anime dei cittadini statunitensi (il poliziotto in pensione desideroso di tornare a indagare, le minoranze etniche, i padri ossessionati dalla sicurezza, i benestanti che desiderano solamente chiudere il processo per tornare ai loro impegni). Una pellicola che, pur riprendendo numerosi elementi caratteristici della filmografia di Eastwood, tuttavia non manca di originalità. Uno stile molto asciutto ed essenziale: i continui campi e contro-campi, quasi sempre riprese di interni (gli esterni sono quasi sempre “di passaggio”), niente fronzoli narrativi o ridondanze. La narrazione circolare (punto di partenza e di arrivo del film è la casa del protagonista) è innestata di numerosi flashback che riconducono alla notte dell’omicidio: lo spettatore, così, conosce per filo e per segno quanto è accaduto quella notte, ma non possono dire lo stesso i personaggi. In questo modo il dilemma interiore del protagonista diventa la domanda che accompagna tutti coloro che siedono in sala. Dilemma che, nel dispiegarsi della narrazione, si scontra con la disillusione di vivere in un mondo imperfetto, dove la speranza ultima non può che essere radicata altrove: In God we trust (confidiamo in Dio) proprio come si trova scritto nell’aula di tribunale.
Per la versione estesa della recensione: https://familycinematv.it/recensioni/giurato-n-2/

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