di Silvia Allegri
È diventato una leggenda per quella memorabile tappa del Tour de France sul Mont Ventoux, che lo ha visto volare sulla ‘montagna calva’ della Provenza. Il Gigante, quella stessa montagna che Francesco Petrarca, secoli prima, aveva scalato in un viaggio simbolico divenuto metafora di elevazione spirituale e ricerca interiore. Era il 26 aprile 1336 quando il grande poeta affrontò la fatica dell’ascesa insieme al fratello Gherardo. Il 18 luglio 1994 Eros Poli, il gigante buono del ciclismo, scrisse una delle pagine più emozionanti nella storia del Tour proprio nello stesso luogo, pedalando da solo per 171 chilometri, attraversando la campagna francese fino ad arrivare alla base del Mont Ventoux con un margine incredibile di quasi 25 minuti sul gruppo principale. Lasciando dietro le spalle i grandissimi, da Miguel Indurain, il dominatore di quegli anni, a Marco Pantani, il ‘Pirata’ all’apice della sua carriera. Abbiamo incontrato l’atleta veronese, originario di Zevio, sulla terrazza della sua casa in Valpolicella, dove ha scelto di vivere da qualche tempo. Per ripercorrere la sua carriera, osservare la trasformazione del ciclismo e raccontare la sua nuova missione: portare appassionati e turisti alla scoperta di terre e paesaggi mozzafiato. Naturalmente in sella a una bici.
– Eros Poli, il mondo del ciclismo è completamente cambiato rispetto a quello degli anni ’90. Cosa ne pensa?«Io mi ritengo fortunato perché ho fatto parte dell’ultimo ciclismo ancora un po’ romantico. Quando gareggiavo io c’era sempre qualcosa di imprevedibile, e c’era soprattutto tanta umanità. Ricordo le informazioni durante le tappe: era già tanto quando ci arrivavano e venivano scritte sulla lavagna di ardesia col gessetto bianco. Ricordo il rapporto stretto e costante che ogni atleta aveva col proprio meccanico, ricordo le maglie di lana, un altro pianeta rispetto all’abbigliamento di oggi. Ricordo con nostalgia quel momento magico in cui noi atleti italiani, alla partenza del Tour de France, ci trovavamo tutti insieme per bere il caffè prima di montare in sella. Dormivamo nello stesso hotel, dopocena si chiacchierava e si scherzava».
– E oggi?«Oggi il ciclismo è uno sport di superspecializzazione, lo paragonerei senza indugio alla Formula 1. La lavagna è stata sostituita dalla radiolina, già alla fine degli anni ’90. Le tappe si sono accorciate e la tecnologia ha permesso di avere dei mezzi dalle potenzialità incredibili: ogni pedalata è monitorata, le biciclette stesse sono diventate dei gioielli. Adesso l’atleta non parla mai direttamente con i tecnici, e a malapena coi compagni di squadra. Arriva in pullman, scende, fa la gara, risale, parte, mangia da solo. I corridori sono seguiti da staff di ingegneri, preparatori atletici specializzati, nutrizionisti».
– Lei e i suoi compagni di squadra, invece, come vi regolavate con l’alimentazione?«La mattina della gara il massaggiatore passava e ti chiedeva cosa volevi mangiare: panino con la Philadelphia e la banana o il miele o la marmellata di fragole. Ma noi andavamo pazzi per il cosiddetto ‘panino del meccanico’: foglia di insalata, maionese, tonno e cipolline. Si alzava la mano, nei tratti meno duri delle varie tappe, e arrivava il panino, poi una bella Coca Cola e via. Stiamo parlando di cose semplicemente inimmaginabili al giorno d’oggi, nell’epoca dei carboidrati liquidi e degli integratori».
– Lei è stato un ciclista specializzato nel lavoro di squadra, gregario di Mario Cipollini negli anni d’oro. Ma ci sono delle vittorie incredibili nel suo palmares. «Nel 1984 ero alle Olimpiadi di Los Angeles. Mio papà, quando decisi di dedicarmi al ciclismo, mi disse: ok, molla pure la scuola e provaci, ma a 21 anni devi iniziare a fare qualcosa di serio. Il giorno dopo ho portato a casa la medaglia d’oro olimpica, insieme a Claudio Vandelli, Marcello Bartalini e Marco Giovannetti. Nel 1988 eravamo alle Olimpiadi di Seul, ci fu un problema tecnico mostruoso: non arrivarono nei tempi previsti le biciclette e la nostra performance fu deludente perché trascorremmo giornate intere senza allenarci. Nel 1989 ho deciso di smettere».
– Ma non fu così. Per fortuna.«Tornai a gareggiare e nel 1990 feci una grande stagione insieme a Fabio Baldato e Mario Cipollini. Dal punto di vista atletico ricordo quegli anni come il periodo più bello della mia vita».
– E poi, l’impresa più straordinaria: il monte di Francesco Petrarca.«Il trionfo alla tappa del Mont Ventoux, nel Tour del France, il 18 luglio 1994, è il momento che non smetterà mai di emozionarmi. Ricordo che ero distrutto, non dormivo da giorni e la sera prima mi sono pure guardato la finale dei mondiali, Italia-Brasile. Sapevo che era una tappa pazzesca quella, dove erano scolpiti nella pietra i nomi dei veri “mostri” del ciclismo. Nessuno si sarebbe aspettato che con il mio fisico pesante e il mio ruolo di gregario sarei stato capace di fare una gara simile. La 15ª tappa del Tour è una delle più impegnative: 231 chilometri da Montpellier a Carpentras, con l’ascesa sul leggendario Mont Ventoux, con i suoi 1.912 metri di altitudine e le sue pendenze spietate. È sempre stato uno degli scogli più temuti da tutti, per il caldo infernale e il vento che soffia senza pietà, costantemente. Nemmeno io riuscivo a crederci, eppure ho mantenuto un ritmo tale da superare la vetta ancora in testa, con oltre 4 minuti di vantaggio su Marco Pantani. La discesa verso Carpentras fu follia pura. Avevo un vantaggio troppo grande per essere colmato. E a 5 chilometri dall’arrivo, quando avevo capito che ce l’avrei fatta, sono scoppiato in lacrime. Avevo le telecamere attaccate, sapevo che tutti mi stavano guardando. Quel giorno, da comparsa sono diventato attore principale».
– Ancora oggi si parla di quell’impresa come un esempio di determinazione e resistenza: non esistono limiti invalicabili quando si ha la forza di arrivare fino in fondo e crederci. Ha nostalgia di quel periodo della sua vita?«Non mi mancano quegli anni, le gare e le vittorie appartengono a una fase della mia vita che coincideva con la giovinezza e una voglia inesauribile di fare. Di sicuro la bicicletta è sempre presente, un amore inesauribile».
– Che oggi ha trasformato in un lavoro originale: l’accompagnatore in viaggi sulle due ruote per gli appassionati d’oltreoceano, principalmente provenienti da Usa e Canada. «Nel 2006 ho fatto il mio primo viaggio: un bus, un carrello carico di biciclette, un gruppo di turisti appassionati di bici che volevano scoprire luoghi magici, come appunto il Mont Ventoux. Da allora non mi sono più fermato: in sella alla mia bici ho accompagnato i turisti in Europa e in America. Scoprendo luoghi pazzeschi, come quel tratto di costa, in California, dove in novembre si rifugiano lungo le spiagge gli elefanti marini. Lavoro per un’agenzia che si chiama InGamba, specializzata in tour cicloturistici di lusso. Offriamo ai turisti un’esperienza unica, come se fossero professionisti: ogni quattro clienti c’è un massaggiatore, e poi abbiamo i meccanici, le guide, un servizio di prodotti dietetici e supplementi alimentari per il recupero dopo gara. E ovviamente il top dei ristoranti e degli hotel. Carta vini inclusa. Non a caso il nostro motto è: Mangia Bevi Bici. La passione per la bicicletta si sposa alla perfezione con degustazioni e strutture ricettive di qualità».
– E intanto è arrivato Grinta, un cortometraggio prodotto da Adjacent Lab che ripercorre l’impresa del Mont Ventoux, dove lei ha accompagnato già diversi gruppi di turisti.«Questo lavoro è una grande soddisfazione per me. A distanza di molti anni, ripercorrere quelle ore di sudore e solitudine, di battaglia contro me stesso e la montagna, continua a emozionarmi».