Indomita: è questo il titolo scelto per il docufilm che il Pastificio Rana ha scelto di dedicare a Maria Canins, e che lo scorso 13 luglio è stato presentato a Imola, in occasione dell’ultima tappa del Giro d’Italia Women 2025. Venti minuti appassionanti, ricchi di testimonianze di atleti e di esperti sportivi, che ripercorrono la storia di una campionessa incredibile, capace di eccellere in diverse discipline sportive contemporaneamente, ma senza mai perdere due qualità rarissime: la gentilezza e l’umiltà. E negli anni dei grandi dualismi sportivi sulle due ruote, che vedevano Coppi contro Bartali, Gimondi contro Merckx, Saronni contro Moser, il pubblico maschile del ciclismo ha perso la testa per questa campionessa. Che ha spianato la strada alle sportive di ieri e di oggi. E lottava, prima di tutto, sfidando se stessa.Indomita, perché non è mai stata domata. Non ne sarebbe stata capace, Maria Canins. L’uscita di un docufilm dedicato a lei, voluto da Gian Luca Rana, amministratore delegato dello storico Pastificio Rana e grande appassionato di ciclismo, ci permette di raccontare di nuovo, e di far scoprire ai lettori più giovani, l’impresa da titani che ha saputo fare questa atleta, classe 1949. La donna che ha spianato la strada allo sport al femminile, sovvertendo ogni regola, dimostrando al mondo che la voglia di vincere e di scoprire i propri limiti può portare sulle vette più alte sconfiggendo la fatica, le cadute, i dolori.
Incontrare una leggenda. È speciale incontrare atleti di altissimo livello che riescono a raccontarsi con semplicità, nonostante i loro incredibili successi. Sono fortunata, perché ho conosciuto Maria Canins poco tempo fa, in una giornata d’inverno baciata dal sole che ci ha viste percorrere sulle ciaspole i bellissimi sentieri tra i boschi che circondano La Villa, in Alta Badia. Chiacchierare con una leggenda vivente è un privilegio, un’emozione pazzesca. La vedi vicino a te e riconosci quel viso pulito e autentico che hai visto in centinaia di spezzoni e filmati, in tv. In carne e ossa, Maria ancora oggi si muove con l’agilità di una fuoriclasse e sprona chi le sta vicino a superare la paura, a concentrarsi sul bello che è intorno a noi e che a volte, presi come siamo da infiniti retropensieri, non sappiamo assaporare abbastanza. «Sono caduta tante volte, mi sono rotta costole, polsi e altre ossa, ho vissuto grandi dolori. Ma ho sempre trovato nella natura e negli sport di resistenza le mie terapie», racconta. «Lo sport ti mette alla prova e ti fa anche fermare, quando ti fai male. Ma poi la voglia di ripartire prevale su tutto. La natura è un balsamo per l’anima e una medicina potentissima. Ogni volta che posso esco da sola, magari la mattina presto, dove non è ancora passato nessun umano. Adoro vedere le orme degli animali nella neve e capire a chi appartengono, mi piace osservare il lavoro instancabile delle formiche, ascoltare gli uccelli che cantano, guardare un fiore che si apre al sole». Se si è fortunati, si può incontrare ancora adesso Maria Canins tra le sue montagne. In sella alla sua bici o con le ciaspole ai piedi. Lei supera la pigrizia, la sconfigge sempre o forse neanche la conosce. Perché, dice, non importa se la giornata è partita per il verso giusto oppure no: «Magari abbiamo dormito male, l’umore non è dei migliori, siamo giù di tono. Mai come in questi momenti è essenziale uscire, e passo dopo passo, con calma, il corpo ritrova energia e lo spirito si tranquillizza».
Una carriera senza precedenti. Sono passati esattamente 40 anni dal trionfo di Maria Canins alla Vasaloppet, la gara di sci di fondo più antica al mondo che si svolge in Svezia e vede i partecipanti sfidarsi su un percorso di 90 chilometri. Sempre nel 1985 Maria vinceva anche il primo Tour de France, titolo che avrebbe poi riconquistato l’anno successivo. E queste sono solo alcune delle imprese dell’Indomita: quindici volte campionessa italiana di sci di fondo, dieci volte consecutive vincitrice della Marcialonga, dodici volte della Maratona della Pusteria, sette volte della Dobbiaco-Cortina. Certo, la sua versatilità ne fa un caso unico nella storia: quando passò al ciclismo, oltre ai Tour de France e un Giro d’Italia, vinto nel 1988, si portò a casa sei titoli italiani su strada e quattro a cronometro. Insomma, un’atleta che ha saputo primeggiare in sci di fondo, ciclismo su strada, corsa in montagna, skiroll, mountain bike. Ecco spiegato cosa significa fuoriclasse… o anarchia: la capacità di mantenere una preparazione atletica così completa da poter spaziare, anzi, eccellere, in più sport. Spianando la strada alle atlete di ieri e di oggi: «Maria è arrivata nel momento in cui la Federazione ciclistica stava cercando ragazze brave a pedalare in salita», ricorda nel docufilm Alfredo Bonariva, preparatore atletico. Erano i primi anni ’80 e quando arrivò nella nazionale azzurra, a 30 anni già compiuti, aveva compagne di squadra ben più giovani di lei. Seppe lasciare tutti sbalorditi: a lei si deve il merito di aver portato il ciclismo femminile nelle case degli italiani, tenendo milioni di telespettatori incollati alla tv, a contemplare le sue imprese.
La sete di fatica e la voglia di arrivare in alto. Di allenatori ne ha avuti tanti, Maria, ma uno spirito libero come il suo non era capace di seguire strategie. Lei lo ammette con candore: «Anche se il mio direttore sportivo mi diceva cosa fare, io poi facevo sempre solo ciò che mi dicevano il cuore e le mie gambe». Così si arrampicava, come un camoscio, dicono quelli che l’hanno vista coi loro occhi, su quelle cime. Fatica allo stato puro, arrivare all’impossibile. E non ce n’era per nessuno. «È sempre stata clamorosamente primordiale nel suo modo di interpretare il ciclismo: lei partiva e andava, non usava tattiche, era semplicemente la più forte», racconta Roberta Bonanomi, ex ciclista italiana su strada. E Francesca Galli, anche lei ex ciclista e campionessa del mondo nella 50 km a cronometro a squadre a Renaix nel 1988, dice: «Quando l’abbiamo vista la prima volta tutti ci siamo chiesti: ma da dove spunta questa? Maria è stata un ciclone all’improvviso. E vederla arrivare alle gare con la sua bambina e suo marito è stato un esempio per tutte. Immediatamente è diventata per tutte noi, e per le atlete più giovani, un’icona e un punto di riferimento insostituibile».Perché era, ed è, così. Nulla è cambiato per lei: Maria esce nella natura a fare sport, si prende cura della sua casa, insegna, si racconta con generosità quando qualcuno si avvicina a lei, mettendo a proprio agio con naturalezza e con il sorriso. E ricorda sempre l’attrazione irresistibile verso le vette: «La montagna è una calamita che ti attira verso l’ignoto – dice –. Non ho mai apprezzato la discesa quanto una salita». E se deve scegliere, oggi come ieri, Maria punta in alto. «La mia passione è sempre stata quella di competere con me stessa, e solo in un secondo momento pensavo al tempo. Sfidarmi mi ha regalato enormi soddisfazioni». Eppure, il suo viso è sempre quello: acqua e sapone, nessun artificio, nessuna posa. Occhi che sorridono e che hanno, semmai, la capacità unica di ricordare a ognuno di noi che nulla è impossibile, quando a guidarti è una vera passione. Bisognerebbe, forse, saperla imitare: al bivio, tra discesa e salita, vince la salita.