Nella “sua” Africa la realizzazione di un medico

Il dott. Donadelli e il suo pluridecennale impegno in Tanzania

| DI Marta Bicego

Nella “sua” Africa la realizzazione di un medico
«Io là sto bene». Là per Giovanni Donadelli, medico volontario di 82 anni, significa Tanzania, dove opera con l’Associazione Bertoni per la cooperazione e lo sviluppo (A.b.c.s.): organizzazione non governativa nata quasi quarant’anni fa, di cui è il presidente. 
La geografia della solidarietà è ben più ampia se si guarda all’opera compiuta, al fianco dei padri Stimmatini, per assicurare un presente e un futuro migliori alla popolazione locale. In particolare nel centro di salute di Msange, valle del fiume Yovi, nel distretto di Kilosa, che fa parte della regione di Morogoro. Là dove per Donadelli, sua moglie e tanti altri componenti della sua famiglia ormai è casa. 
Con il camice bianco, Donadelli ha lavorato in clinica medica nella direzione sanitaria dell’ospedale di Borgo Trento ed è stato per 37 anni medico condotto a Dossobuono, dove 25 anni fa ha fondato l’associazione di volontariato “Punto d’incontro”. Ha fatto parte dell’Unitalsi dal 1977 al 1983. 
Ha due specialità, in Endocrinologia e malattie del ricambio e in Scienze dell’alimentazione, e un master in Igiene e medicina preventiva. Oltre a un incurabile “mal d’Africa”, per cui ha spesso la valigia pronta. Sei mesi qua, in Italia, dove si impegna in raccolte di fondi e materiali; sei mesi là, da quando è in pensione. «Perché là la mia presenza è utile più che qua. Ripartirò a luglio...». 
– Facciamo un passo indietro e andiamo alle origini di questa “vocazione” al volontariato. Quando è iniziata?
«Nelle interviste ripeto che non ho nulla di eroico né di straordinario. La mia formazione è stata in parrocchia, grazie a mia madre che mi ha insegnato a essere solidale nei confronti del prossimo e ai padri Stimmatini dai quali, quando è morto mio padre, sono stato in collegio dal decimo al diciottesimo anno».
– La solidarietà ha permeato la sua vita, ma cosa l’ha portata in Africa?
«Nel 1993 ho accompagnato per tre settimane i miei figli in un soggiorno di volontariato e di conoscenza della Tanzania che, ogni anno, organizzano gli Stimmatini per gli studenti del liceo. Sono sceso come medico per dare una mano, ho visto la realtà che c’era e ho sposato l’impegno per quella che ora è la “mia” Tanzania». 
– Quali sono stati i primi passi compiuti in quella terra?
«Ho iniziato creando qualche piccolo dispensario. Negli anni successivi, due imprenditori veronesi illuminati, Guido Fraccaroli e Silvano Murari, hanno pensato di dedicare a un’opera buona il corrispettivo delle prebende natalizie ai loro clienti per costruire un centro di salute. Da due, le stanze sono diventate quattro e le attività si sono moltiplicate. Adesso siamo arrivati ad avere un piccolo healt center, un centro di salute in cui c’è un reparto di maternità dove ogni anno nascono 200 bambini sani; un reparto materno-infantile da 3mila vaccinazioni l’anno e per altrettanti una valutazione dello stato ponderale; un reparto Aids con 200 persone in carico; un centro per la cura e prevenzione della lebbra e della tubercolosi. Quest’ultimo è stato creato dopo che, all’uscita dalla Messa in un villaggio, alcuni lebbrosi sono venuti a chiedermi se potevo fare qualcosa per loro e li ho ascoltati. Non si curavano o si curavano male perché il lebbrosario più vicino era a 200-250 chilometri». 
– Qual è la situazione sanitaria oggi?
«La struttura funziona perché, oltre a essere dotata di un’apparecchiatura per fare i raggi acquistata grazie alla Cei, ho portato giù tante piccole cose e la Radiologia è diventata la più importante ed equipaggiata dell’intera regione. Non solo: una radiografia eseguita là un’ora fa, può essere vista qui e la telemedicina mi ha permesso di risolvere un caso molto complicato, confermando la diagnosi a distanza. La diagnostica si è affinata nel tempo: abbiamo un centro di ecografia e nessuna mamma con presentazione anomala muore di parto. È una realtà molto gradita dalla popolazione e dalla nazione». 
– In generale, come vive la gente?
«C’è un’Africa urbana che vive nel Terzo millennio e c’è un’Africa rurale che è nel Primo millennio. La Tanzania è una nazione in cui ci sono tifo, colera, malaria e Aids ma la malattia più diffusa è un’altra: la povertà, che preclude ogni possibilità di accesso ai beni primari. Qui s’inserisce il nostro essere là. Per la parte di popolazione che gravita attorno alle missioni, c’è una qualità di vita migliore. I missionari, oltre ad aver portato in certe zone il primo telefono e la prima lampadina, hanno fondato scuole nelle quali i bambini dei villaggi possono imparare l’inglese e accedere così agli studi superiori. Poi ci sono gli asili nei quali i bambini mangiano: spesso è il loro unico pasto della giornata».
– Sono molte le realtà che scelgono di aiutare il Terzo mondo. A fare la differenza però è il modo: qual è stato il vostro approccio?
«Noi accogliamo le loro richieste, ci organizziamo, le rendiamo concrete. Non proponiamo cosa fare: è un grande errore voler occidentalizzare i bisogni dell’Africa. Il rischio è di lasciare tante cattedrali vuote. I padri Stimmatini hanno acquistato una campagna di mille ettari dove danno da lavorare a un centinaio di persone; c’è un’officina che dà lavoro ad altre famiglie. L’economia attorno alle scuole è grandissima perché si deve assicurare da mangiare mattina, mezzogiorno e sera a 800 ragazzi, fare in modo che gli ambienti siano puliti, quindi c’è tanto personale». 
– Cosa la spinge a continuare a tornare?
«Senz’altro la carità cristiana, il desiderio di aiutare il prossimo. Però c’è anche un bell’egoismo da parte mia. La Provvidenza mi ha fatto nascere medico e io mi sento medico nel modo assoluto, ed essere contatto con la sofferenza e con le malattie mi fa stare bene. Una soddisfazione che chiamo “egoismo sublime”. È un’utopia la nostra, ma se inseguendo questa utopia lasciamo dietro di noi scuole, ospedali e persone felici...». 
– Non c’è mai stato un momento in cui si è sentito impotente rispetto a tutto quello che c’è da fare?
«Ho avuto dei momenti di scoramento. C’è stato un episodio immortalato dalla foto, diventata storica, di una bici-ambulanza. Proprio quella mattina avevo deciso di tornare in Italia e di chiudere, dopo aver visto cinque bimbi nati morti. La mia disperazione è stata tremenda. Sono tornato a casa, ho fatto un giorno di silenzio. La mattina seguente sono tornato al centro e sono venuti al mondo tre nuovi bambini, felici. È cambiato allora il mio modo di pensare e ho deciso di continuare. È tanto bello vedere nascere la vita, che non riuscirei a stare a lungo lontano dalla Tanzania».

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