Un film delicato e poetico che narra l’essenza di una vita in tre atti

| DI Francesco Marini

Un film delicato e poetico che narra l’essenza di una vita in tre atti
Per chi ha un po’ di confidenza con il mondo del cinema, l’accostamento di un regista come Mike Flanagan e di uno scrittore e sceneggiatore come Stephen King non può che far pensare a uno splendido film horror. Non è così, però, nel caso di The Life of Chuck. Pur attraversando momenti caratterizzati da buio e mistero, con una musica incalzante e un costante senso di incertezza sull’esito della storia, il film racconta in realtà una vicenda poetica in tre atti a ritroso.
Nel primo atto (che corrisponde al terzo del racconto) domina un’atmosfera da fine del mondo: l’immagine di Charles “Chuck” Krantz appare ovunque – cartelloni pubblicitari, finestre, schermi – celebrando i suoi “39 meravigliosi anni”. L’imminente apocalisse finisce persino per riavvicinare persone lontane, come il professore interpretato da Chiwetel Ejiofor e l’infermiera con il volto di Karen Gillan.
Il secondo atto mostra invece Chuck (un intenso Tom Hiddleston) durante una trasferta di lavoro. Qui, in una parentesi di leggerezza, l’uomo si lascia andare e balla al ritmo della musica suonata da una batterista di strada.
L’ultimo atto, pur essendo il finale del film, coincide con l’inizio della vita del protagonista. L’infanzia e l’adolescenza di Charles offrono a lui – e allo spettatore – una chiave di lettura fondamentale dell’esistenza, resa esplicita dai versi di Walt Whitman (autore conosciuto dai cinefili per la celebre opera Oh capitano! Mio capitano! in L’attimo fuggente): “Mi contraddico? Benissimo, allora mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini”. La citazione diventa la lente attraverso cui rileggere l’intera pellicola.
Tre atti che, pur senza raccontare una vita intera, ne restituiscono l’essenza: vita, danza, morte, amore e mille altre sfumature diventano pennellate di un ritratto. Euforia, dolore, meraviglia, paura e gratitudine si mescolano come colori che illuminano la tela. Il filo rosso che lega gli episodi è l’attesa di una fine inevitabile, che incombe senza mai svelarsi del tutto. Una fine che, paradossalmente, insegna a guardare con occhi nuovi il presente.
Molti hanno definito l’opera di Flanagan e King un vero inno alla vita. E, in effetti, il risultato finale è delicato e poetico, mai melenso, capace di conservare quella sottile venatura horror che caratterizza entrambi gli autori. Racconto e stile richiamano alla memoria Big Fish di Tim Burton, per la capacità di fondere realtà e immaginazione.
Un film che invita a riflettere senza diventare un polpettone esistenzialista, riuscendo invece a intrattenere, emozionare e, a tratti, perfino divertire.

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