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Quando la poesia dialettale dà il meglio di sé

Marco Bolla
Boche de Piéra
Panda Edizioni - s.l. 2014
pagg. 36 – 2,50 euro

Parole chiave: Boche de piera (1)
Quando la poesia dialettale dà il meglio di sé

Relegati negli scaffali più appartati, quando ancora esistono, i libri di poesia si sono fatti a poco a poco sempre più piccoli e sottili, come per esprimere la discrezione alla quale li vincola la loro stessa marginalità: questo di Marco Bolla esce in un piccolo formato, presso un piccolo editore, e si apre nella mano come senza peso. Fa piacere sfogliare un libro del genere: piccolo, robusto, denso e incisivo.
La poesia di Marco Bolla ci viene incontro nella lingua domestica, familiare, cioè nel nostro dialetto, e ci dona attimi di concentrazione, di riflessione, di emozione solida e profonda. In dialetto, del resto, furono scritti alcuni capolavori della letteratura italiana, che è plurilingue fin dal XIII secolo: è stato soprattutto il Novecento il secolo dei poeti dialettali. Pier Paolo Pasolini con le sue poesie friulane, Virgilio Giotti con le poesie triestine e Biagio Marin con le poesie gradesi ci mostrano, nella letteratura del Nordest d’Italia, quanta bellezza e profondità un poeta possa ottenere lavorando sul proprio dialetto. Bolla ne è erede e continuatore, e ne condivide anche il crescente isolamento di chi si dedica alla poesia con passione e competenza.
Benché il libro sia leggero, le parole pesano: Bolla impiega la fonetica e il lessico della zona est del Veronese, e ci presenta con immediatezza ed essenzialità un universo interiore fatto di attesa, aspirazioni, desideri e contemplazioni. Desiderio di partire, ad esempio: “Beati lori! Beati i osei che parte / come un mucio de cavei sgrendenài, / come le foje supiae dal vento / che le sconde in meso a fiori sbociài”. Attesa di “on scorlón de verità / parché possa védare / quel che g’ho drento”. La contemplazione dell’autunno, l’ascolto de “la so desolassion che s’infagòta / mostacià de mosto nei veci quarèi”. Contemplando, con i suoi interrogativi sulle labbra, Bolla dialoga col vento, col sole, con la pioggia e con se stesso.
La lingua veronese, tra le mani di Bolla, dà il meglio di sé, rendendo eloquenti e quotidiane, vive e immediate le immagini e i discorsi. Bolla dialoga, osserva, ascolta: ha i sensi aperti, e riversa nel dialetto il proprio discorso in maniera essenziale, senza sentimentalismi né ammiccamenti. Sembra una lingua di legno d’ulivo, intagliata, scolpita: intraducibile, per lo più, nonostante le belle versioni italiane in prosa che accompagnano le poesie (ai testi in italiano che si alternano, in alcune sezioni, alle liriche in dialetto, manca proprio questo stesso genio).
Spesso, la produzione poetica dialettale veronese è sdolcinata o convenzionale, aderente ai modelli di Barbarani, di Todo da Re, di Angelìn Sartori e anche alla lezione del Pascoli delle poesie familiari, della malinconia domestica, del rimpianto e della nostalgia; a volte, la lingua è molto incerta, e si tratta di un ibrido tra le diverse varianti del dialetto e la lingua nazionale; la poesia dialettale, anche la migliore, vive per lo più nell’oralità dei cenacoli, che tengono viva una passione condivisa e ardente, con infiniti meriti (e qualche esito davvero notevole). Bolla, invece, ha una consapevolezza linguistica e una originalità di modi e di temi che davvero colpisce; e se ha colpito un maestro della lirica dialettale (e non solo) come Renzo Favaron, che firma la breve nota introduttiva al volume, possiamo starne certi.
Sempre più visionaria e lacerata, nello scorrere delle pagine, la poesia di Bolla ci raggiunge, a volte, come un colpo di frusta, specie in alcuni passaggi brevi e visionari: “L’edera intorcolà / de la me casa / querce tuto / e la vol che tasa”. O anche: “Sercava un toco de pan / ma g’ho catà / on fiore seco: / l’ho rancurà / come fusse un oracolo / e l’ho sconto ‘n te l’armaro”.

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