Il Fatto di Bruno Fasani
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Quando il passato torna a proporsi come soluzione ai problemi

Magari possiamo liquidare il tutto dicendo che è una moda. Ma anche le mode domandano di essere interpretate, evitando di liquidarle dentro i toni emotivi dei nostri giudizi o pregiudizi che siano...

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Magari possiamo liquidare il tutto dicendo che è una moda. Ma anche le mode domandano di essere interpretate, evitando di liquidarle dentro i toni emotivi dei nostri giudizi o pregiudizi che siano. Questo vale per tutti gli ambiti. Penso alle braghe rotte “finto povero”, da duecento euro. Un insulto ai poveri veri. Ricorderò sempre quando la mia vecchia mamma le vide per la prima volta indossate da una pronipote. Chiamò con discrezione la mamma della ragazza e le indicò una sarta perché la figlia non facesse brutta figura, uscendo con i pantaloni rotti.
Ma sempre per stare alle mode, bisognerebbe domandarsi, andando oltre i luoghi comuni, cosa stia dietro al fenomeno dei tatuaggi, delle capigliature “finto upupa”, dei piercing, delle risse organizzate da branchi di adolescenti ubriachi di ozio.
Questa volta, però, vorrei occuparmi di un’altra moda, quella dei docu-reality, che facilmente viene liquidata come Tv spazzatura. Un programma che, a differenza dei reality, i quali vengono trasmessi in diretta con visti e imprevisti, viene registrato, montato ad arte, decidendo cosa far passare, quali personaggi far emergere, che tipo di reazioni emotive provocare nello spettatore. Insomma un bel piatto confezionato da bravi chef televisivi, per alimentare la bulimia di noi poveri guardoni, spesso incapaci di fare zapping cambiando canale. Ebbene, dato il consenso del pubblico, sembra che il filone stia dando grandi soddisfazioni agli autori e alle casse pubblicitarie delle emittenti. Sono partiti con Il Collegio, simulando ambienti e stili scolastici di 50, 40, 30 anni fa. Bastava una professoressa Petolicchio, un nome un programma, per far versare fiumi di lacrime ai mocciosi passati dalle prigionie digitali ai severi costumi dello studiare, tacere, ubbidire. Un successone.
Si è passati poi a La Caserma. Visto che dal 2006 parlare di naja è diventato un tabù e proporre di reintrodurre un servizio civile obbligatorio fa andare in fibrillazione er core de mamma, perché non simulare due mesi in divisa militare sotto la Vigolana, in Trentino?
Ma il botto arriva con l’ultima proposta: Ti spedisco in convento. Cinque ragazze, non propriamente eredi di santa Maria Goretti, vengono catapultate per un mese tra le sacre mura di un monastero. Vero, questa volta con tanto di suore, cinque, altrettanto vere. Le suore sono le Oblate del Bambino Gesù di Sorrento e, come scrive la loro madre generale, hanno come scopo quello di fare del loro servizio una culla, una mangiatoia dove accogliere i poveri Cristi che si rivolgono loro. Scopo ambizioso del programma (almeno a parole) è quello di aiutare persone a ritrovare un minimo di felicità, recuperando un pizzico d’anima, per generazioni abbruttite dall’alcol, nel degrado sessuale, nelle sostanze tossiche e in un narcisismo diventato una prigionia senza scappatoie.
Difficile credere che un mese tra liturgie, preghiere e gli abiti castigati di cinque monache sarà sufficiente a scalfire le ambiziose aspettative di procaci ragazze in cerca di visibilità ma, al di là degli esiti, rimane una domanda. Perché c’è bisogno di rifarsi al passato, sia esso dentro una scuola che funzionava e preparava per la vita, dentro una caserma che insegnava il rispetto delle regole, dentro un ambiente, che rimanda comunque alla fede capace di mettere un po’ di ordine nella bestia che ci portiamo dentro? Vietato dire con nostalgico rimpianto: una volta… così come è politicamente scorretto parlare di valori e di etica, nei tempi della morale in libera uscita. Ma se fosse la vita stessa a domandarci di non buttare via il bambino del passato con l’acqua sporca in cui era immerso? Buona Pasqua, cari lettori.

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