Tra poche settimane, con l’arrivo del nuovo Messale, si inizierà a recitare il Padre nostro con una piccola aggiunta, un “anche” che rafforzerà una delle frasi più difficili da digerire e soprattutto da attuare: “Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. In questa frase c’è il filo conduttore del Vangelo di oggi, che tratta l’impegnativo tema del perdono reciproco. Affrontando questo tema, Gesù ne allarga la prospettiva. Per lui il perdono deve essere generoso, costante e illimitato. In precedenza il perdono doveva essere accordato per almeno tre volte, come Dio fa con l’uomo, secondo quanto scrive Giobbe. L’apostolo Pietro si rivolge a Gesù per chiedere quante volte dovrà perdonare il fratello che compie un torto, e gli propone una nuova misura: sette volte. La risposta di Gesù va oltre. Spezzando ogni concezione quantitativa del perdono, esige dai suoi discepoli un perdono che non ammette limiti. Lo dice attraverso una cifra simbolica esorbitante: “settanta volte sette”.Gesù di seguito propone il racconto del servo spietato, per giustificare la propria richiesta. La parabola, piena di realismo fotografico, è articolata in tre scene: il padrone e il servo che gli deve una cifra immensa; il servo e il suo collega che ha un piccolo debito nei suoi confronti; il padrone e il servo nella resa dei conti finale. Anche l’entità dei debiti aiuta a comprendere meglio la parabola. La cifra che il servitore deve al suo padrone è di diecimila talenti. È una cifra immensa. Basti pensare che un solo talento corrisponde a circa trenta chili di metallo prezioso. Chi ha provato a tradurre la cifra in questione in giornate lavorative del tempo ipotizza che si tratti di un debito estinguibile in quasi nove milioni di anni di lavoro. Invece il debito che il suo compagno gli doveva ammonta a soli cento denari. Detto altrimenti: cento giornate lavorative. Tutta la parabola si gioca quindi sul contrasto tra un debito ingentissimo, corrispondente al budget annuale di una multinazionale, e una cifra alquanto modesta, corrispondente a qualche mensilità di un operaio.Appare pertanto ancor più chiara l’opposizione tra i due comportamenti. Il padrone concede al dipendente, che blatera invano il risarcimento, non la semplice – si fa per dire – dilazione, ma la cancellazione totale del debito. Il servo, sperimentata la misericordia del padrone, avendo da parte di un suo pari grado un credito esiguo, mantiene invece un rigore inesorabile. Non conosce tolleranza, né attesa e con spietata determinazione lo fa gettare in prigione. Ciò scatena la reazione del padrone che richiama il miserabile debitore e con lui si mostra ora inflessibile, visto che non aveva capito che il condono ottenuto lo obbligava a mostrarsi a sua volta pietoso e magnanimo. Avendo sperimentato la generosità, doveva anche lui essere generoso. L’uomo graziato doveva far grazia. Gli era stato aperto un futuro nuovo: entrato nella prospettiva del dono, doveva diventare donatore di speranza.La parabola racconta quanto Dio fa a ciascuno dei suoi figli: nella sua misericordia cancella ogni debito accumulato. Il perdono che Dio sempre concede all’uomo lo obbliga ad un comportamento analogo verso il fratello che ha commesso un’offesa. Dio, perdonando, apre a nuova vita l’esistenza dei suoi figli. Gesù è l’annunciatore di quest’ora di grazia e di responsabilità.Scrive sant’Agostino: “Perdonati, perdoniamo”. La lezione che Gesù indirizza ai suoi è limpida e non ammette eccezioni. Il discepolo dev’essere sempre pronto e gioioso nel perdonare, senza ricorrere a scusanti o distinzioni vane, sul modello del “perdonare ma non dimenticare”.Il cardinal Ravasi, con un apprezzabile filo di ironia, così sintetizza l’invito al perdono: “Gesù, spingendoci verso quell’unica soluzione radicale che è la santità, ci esorta a perdonare settanta volte sette. Cure drastiche quelle di Gesù. La camomilla non si trova nella sua farmacia”.