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C'era una volta e c'è ancora il paese nei "vecchi" ricordi

di ADRIANA VALLISARI
Un libro raccoglie le memorie dei residenti più anziani 

C'era una volta e c'è ancora il paese nei "vecchi" ricordi

di ADRIANA VALLISARI
Na olta, l’èra cosìta”. Quante volte abbiamo sentito gli anziani esprimersi in questo modo, raccontando di fame, guerra e miseria vissute sulla propria pelle? “Una volta era così”, punto: suprema accettazione. Spesso non stiamo neanche più ad ascoltarli, i nostri anziani; oppure sono loro stessi a tenersi dentro le memorie passate, vedendo che fuori non interessano più a nessuno, o quasi. Per questo l’operazione di scavo e raccolta di ricordi realizzata da Francesca Fecanti nel suo L’intervistatrice di anziani è un piccolo gioiello; piccolo neanche tanto, visto che si tratta di 300 pagine, pubblicate su Amazon (dove si può acquistare), in cui l’autrice ha raccolto le testimonianze di una ventina di anziani lupatotini, soprattutto donne, tra gli 80 ai 96 anni, andando a casa loro e registrando le conversazioni, poi trascritte senza filtri, lasciando molte parti in dialetto.
«Lo spunto l’ho avuto riprendendo in mano La mia vecchia Bearara, un libricino di ricordi di infanzia realizzato da mio suocero Ezio Rosa, classe 1937, morto nel 2019 – racconta l’autrice che di professione è impiegata amministrativa, ma scrive per passione da vent’anni –. Ezio mi ha sempre incoraggiato a comporre poesie e a scrivere: così dopo un racconto lungo sulla corsa, ho pensato di cercare i coetanei di mio suocero, per radunare i loro ricordi di gioventù».
Dopo un annuncio su un gruppo Facebook del paese, l’elenco ha preso forma e Fecanti ha girato le case dei vecchi lupatotini, tirando fuori delle storie incredibili. «Non è un saggio, ma un romanzo, perché parlo anche di me stessa, mettendo a nudo i miei sentimenti», precisa. Nelle pagine, però, si tratteggia il tempo passato, fatto di giochi d’infanzia, ricordi di maestre severe, spassosi aneddoti legati a personaggi del paese, il lavoro nelle grandi fabbriche (cotonificio, ricamificio, cartiera), i bombardamenti di guerra e, infine, la Liberazione. Motivi più che sufficienti per presentare in pubblico l’opera, mercoledì scorso, alla baita alpina, in una serata organizzata dal Comitato Radici.
«Ho amato a modo mio tutti i vecchietti che sono andata a intervistare, mi sono appassionata a tutte le storie che ho ascoltato, e mi sono immedesimata in esse», ammette Francesca. E sfogliando le pagine si capisce perché. Difficile non simpatizzare con Franco Verona, classe 1935, mentre affiancato dalla moglie Franca Frigo, nata nel ’42, racconta del papà richiamato in guerra e tornato dalla Russia dopo sei anni: pesava 36 chilogrammi. Franco lo riconosce, invece “me fradel el gà dito a me mama, chi èlo quel lì?”.
La fame era una brutta bestia: “Noàltri ghémo da ringraziàr me noni, me nóno el gavéa el porco, i cunèi, le galìne, tredese ochi”, ricorda Franco, che portava quelle oche a pascolare in riva all’Adige, da via Porto. E che dire, invece, dell’incredibile epopea del 95enne Mario Stoppato? Era uno scolaro promettente, avviato prestissimo al lavoro; il maestro, convocando i genitori per sapere perché non lo volevano far studiare, si sentì rispondere così dalla mamma: “Perché abbiamo bisogno dei soldi per mangiare”. Mario continua a lavorare finché, a 18 anni, viene chiamato alle armi sotto la Repubblica di Salò. Diserta, si rifugia a Sanguinetto, gli arriva la cartolina militare: deve presentarsi alle casermette di Montorio, perché i tedeschi lo porteranno in Germania a lavorare. “I fascisti hanno detto a mia mamma: se domani mattina non troviamo Mario qui, portiamo via suo marito e mandiamo in Germania lui al posto di Mario”, ricorda.
Per intercessione di don Carlo Stoppato, cugino del padre, Mario schiva la prigionia e viene reindirizzato alla Questura, come agente di polizia ausiliario. Finisce a Maderno, poi da lì scappa con altri cinque sbandati attraversando il Garda a forza di remi (sei ore!); la fuga continua ed è rocambolesca, evitando i tedeschi in ritirata, prima di rivedere finalmente casa. Di bombardamenti, guerra e Liberazione parlano anche altri intervistati, è inevitabile. Giuseppina Corazza, classe 1936, ricorda bene l’aereo ricognitore “Pippo”. E pure l’aviatore inglese che la sua famiglia ospitò negli ultimi 18 mesi di guerra, non senza correre rischi: “El mangiava con noàltri, el dormiva in camera nostra, el se fasèa le sigarette coi scartossi della polenta”. Giuseppina conserva ancora il certificato di benemerenza rilasciato dagli americani al papà, che fu ricompensato con dei soldi, con cui “me upà el savèa comprà una vacca”. Anche Angelino e Bice – Angelo Zaccarella, nato nel ’26 e Rosalia Ceriani, del ’33 – una coppia d’altri tempi, raccontano la loro guerra, che vide lui nascondersi per due anni fra i campi. E ammettono che faticano ad adattarsi “al sistema che i gà da vivere ancò: i gà tutto ma no ghe interessa niente”. Fa loro eco Luciana Pasini, classe ’38, trent’anni di lavoro al ricamificio e sfollati da Milano accolti dal nonno: “na olta se ghéa piassè contatto con la gente”, dice. Sono teneri e fanno sorridere i ricordi di infanzia della spassosa Maria Pia Girlanda, classe 1943. “La me gioventù l’è sta bèla anca se no ghéa niente”, ammette. Perché si giocava davvero con niente. E ci si divertiva a combinare delle marachelle, come quando si andava a mangiare l’uva a una vecchietta del paese, che brandiva un bastone e urlava “Vigliacchi! Delinquenti!”, e i bambini correvano a nascondersi.
Nelle parole degli anziani lupatotini c’è una San Giovanni scomparsa. Come il traghetto per attraversare l’Adige, raccontato dal caronte Luciano Bonetti, del ’39, che accompagnava da una riva all’altra la popolazione, incluse “macchine e camionsìni”, finché non affondò, il 16 settembre del 1970. Fece in tempo a prenderlo molte volte Vinicio Faccincani, pittore classe 1937, che all’età di 13 anni doveva prendere il traghetto per rientrare dal lavoro sulla sponda di San Michele (zona inceneritore di Ca’ del Bue, per intendersi) e d’inverno era buio pesto... La carrellata potrebbe proseguire ancora a lungo, parlando della maestra Gabriella Caprara, della dolce Anna Maria Lovato (purtroppo deceduta), della spumeggiante cantante Carla Marani, di Elda e Giovanna Perbellini, di Sergio Passarini, uno degli ultimi testimoni della vita in corte Sorio, e di tutte le persone racchiuse in questo libro, corredato da ritratti in bianco e nero realizzati dall’illustratrice Caterina Dal Zen. Gli ultimi capitoli sono dedicati a un ritorno alle origini. «Dopo tanta strada, ho intervistato le mie due suocere, Daniella Perbellini e la sua gemella Fernanda, mia mamma Doralice Manzini e, con un’intervista ideale, mio suocero Ezio», conclude Fecanti, narratrice per caso e per fortuna nostra.

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