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«Noi sotto le bombe in città nei rifugi o sfollati in provincia»

di ADRIANA VALLISARI
Gianfranco Carlini ricorda bene gli anni più bui dell'ultima guerra 

Parole chiave: Liberazione (2), Bombe (1), Guerra (41)
«Noi sotto le bombe in città nei rifugi o sfollati in provincia»

di ADRIANA VALLISARI
Un’umanità che cerca riparo dalla guerra, lascia le proprie case, è sfollata o profuga. Piovono le bombe in Ucraina oggi e piovevano anche su Verona quasi 80 anni fa. Se le ricorda bene Gianfranco Carlini, classe 1929, 93 anni il prossimo 10 luglio. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Borgo Milano per farci raccontare i ricordi – lucidissimi – di quegli anni, non così dissimili da quelli delle popolazioni di Kharkiv, Odessa o Mariupol.
Corsi e ricorsi storici
In soggiorno la tivù è spenta. Il signor Franco, come lo chiamano gli amici, getta uno sguardo in quella direzione quando gli chiediamo cosa ne pensa della devastazione in Ucraina. «Il guaio più grosso di questo mondo sono i guerrafondai – osserva, commentando l’aggressione russa –. Sono cambiate le fattezze delle bombe, ma l’orrore della guerra è lo stesso e a rimetterci è sempre la povera gente».
Tra una lettura del fumetto Tex e la compilazione di un sudoku, il signor Carlini si tiene informato sull’andamento del conflitto, che inevitabilmente porta a galla i ricordi. «All’epoca, ho avuto fortuna: c’è chi è morto o rimasto invalido, invece io e i miei cari abbiamo portato in salvo la pelle», riconosce.
Una famiglia veronese
È nato in una famiglia con un’avviata attività di commercio di frutta e verdura all’ingrosso, il signor Carlini. Sia da parte del nonno paterno, che si occupava di import-export con l’Impero austroungarico, sia da parte della nonna materna, che aveva un banco in piazza Erbe. «Quando poi costruirono il mercato ortofrutticolo al coperto, in piazza Isolo, l’attività si trasferì lì e fu condotta da mia madre, Clotilde Ballerini; allora c’erano pochi camion, i prodotti agricoli li trasportavano i carrettieri coi cavalli».
Lui passa l’infanzia in questa zona di Veronetta. «Ha mai sentito parlare di via Binastrova? No, perché non esiste più: era la strada in cui abitavo, di fronte alla chiesa di San Tomaso. Lì sorgeva un gruppo di case, demolite per far spazio alla costruzione del ponte Nuovo: prima, per attraversare l’Adige, c’era un ponte di ferro, un po’ più a nord».
In quei vicoli giocava il piccolo Franco con amici e fratelli. Oltre a lui, mamma Clotilde e papà Giovanni avevano dato la vita a Nadia (classe 1924), Angiolino (1925) e Mario (1932). «I passatempi erano semplici: si giocava a calcio per strada: a un certo punto, l’autarchia razionò la gomma, allora giocavamo con una palla di cenci, e ci divertivamo ugualmente».
I venti di guerra
Nel 1936, la famiglia Carlini è costretta a traslocare; i genitori trovano una casetta poco lontano, in via Seminario 7. Soffiano venti di guerra. «A casa mia non c’era la radio: ascoltai la dichiarazione di ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940, a casa di mia zia Lina, in vicolo Tre Marchetti. Alle parole di Mussolini, la zia scoppiò a piangere: aveva due figli grandi, che sarebbero stati chiamati a combattere. Germano era nella Marina e morì affondato con la sua nave; Augusto fu più fortunato: era un paracadutista e si ritrovò in Puglia, dove più tardi avrebbe anche trovato moglie».
Durante la Seconda Guerra mondiale, Gianfranco Carlini era un ragazzo. E, come tale, «visto che la mia famiglia aveva le possibilità, fui mandato a scuola». La prima ginnasio (attuali medie, ndr), anno scolastico 1939/1940, la frequenta al Seminario vescovile, vicino a casa. «Col passaggio dal sistema dei voti numerici a quelli dei giudizi, però, mi trovai rimandato in otto materie e fui costretto a ripetere la prima al “Duca d’Aosta”, dove frequentai pure la seconda, senza successo – dice –. Allora i miei genitori mi mandarono a ripeterla a Porto di Legnago, insieme a mio fratello minore Mario, in un istituto gestito dai salesiani, che sorgeva lungo l’Adige, tra il ponte della ferrovia e quello stradale».
Nella Bassa, Franco è spettatore dell’8 settembre 1943: «Vidi una motocarrozzina con due soldati prendere possesso dell’unico ponte d’ingresso al paese, quello fu il segnale del cambiamento». Il collegio ospitava 150 ragazzini; dietro sorgeva una caserma militare. La vicinanza ai binari rendeva questo luogo sensibile ai bombardamenti. «E infatti l’istituto fu molto danneggiato – constata –. Quando suonava l’allarme, i preti ci portavano nei campi, all’aperto, finché non cessava il pericolo; da una torretta, inoltre, guardavamo la Pianura Padana, illuminata dai bagliori delle bombe».
La situazione si fa sempre più incerta e i genitori decidono di spostare i due figli a Bardolino, in un altro istituto del Don Bosco. «Vi rimasi per 15 giorni: quando i miei seppero che un giorno erano arrivati i tedeschi, che ci avevano messi in piedi in fila e avevano scelto i ragazzi più alti per scavare delle trincee, mia mamma mi richiamò a Verona».
La città e i bombardamenti
La terza media, Franco la frequenta a Sezano, dagli stimmatini. «Ogni giorno prendevo il trenino da Porta Vescovo fino a Marzana, poi coi compagni raggiungevo la scuola; al ritorno capitava di farsi tutta la strada a piedi». Di notte dorme nella casa di via Seminario, col papà e la sorella impiegata; il fratello più piccolo resta a Bardolino, mentre il più grande è chiamato alle armi, prima in addestramento in Germania e poi a presidiare il fronte francese.
«Mia madre, che in seguito a un problema di salute era rimasta semi-paralizzata e in caso di bombardamenti non riusciva a correre, trovò riparo da sfollata: uno dei carrettieri che la riforniva aveva infatti una stalla a Tomenighe di sotto, verso Negrar, e rimase là fino alla fine della guerra». L’alloggio era umile: «Sotto c’era una cucina col focolaio, sopra due camere; guardando in alto, c’erano le arele con i bachi da seta». In quella corte di cinque famiglie, Franco fa amicizia con Agostino Sona, il figlio del carrettiere, quasi coetaneo. «Ricordo anche di aver ascoltato Radio Londra in una casa che aveva accolto una coppia di anziani ebrei: un bel giorno però vennero portati via e di loro non si seppe più nulla – dice –. Per il resto, c’era tanta propaganda: nei bollettini ufficiali non si sentiva mai dire che stavamo perdendo la guerra, l’abbiamo scoperto quando ci siamo trovati di fronte gli americani, che vidi scendere da Montecchio con una jeep il 25 aprile del ’45».
Rifugiarsi dalle bombe
Intanto, in città si intensificano i bombardamenti degli alleati, soprattutto nel 1944 (famoso e luttuoso, quello di Santa Lucia, il 28 gennaio) e all’inizio del ’45. «Si viveva sempre all’erta: quando suonava l’allarme leggero, tre colpi di sirena, voleva dire che c’era un aereo di pattugliamento; se invece i colpi erano 10, al quarto era meglio scappare di corsa, perché stavano arrivando i bombardieri», ricostruisce. Diversi erano i rifugi casalinghi, marcati “RC” all’esterno delle case. «Anche se ne avevamo uno a portata di mano, noi preferivamo andare “alle grotte”, ovvero nelle due gallerie verso Borgo Venezia (dove oggi c’è quella di via Sauro), oppure ci riparavamo a San Zeno in Monte: a metà salita c’era una corte con galleria privata, sennò ci nascondevamo nell’acquedotto del Don Calabria». Si tendeva l’orecchio per captare il rumore degli aerei e il fischio delle bombe. «Se avevo paura? A quella ci si abitua, direi che eravamo rassegnati a quella condizione», ammette. Gli allarmi suonavano a ogni ora. «Capitava che noi ragazzi fossimo al bar Vittoria, in via Carducci, a giocare a carte, o al teatro Nuovo a vedere l’avanspettacolo: all’allarme s’interrompeva tutto e si fuggiva – rievoca –. Un giorno vidi un signore uscire di corsa dal barbiere di piazza Isolo con la barba un po’ fatta e un po’ no: mentre la sirena impazzava, la radio suonava “Oggi che magnifica giornata”...».
Coprifuoco e macerie
Di sera, poi, c’era il coprifuoco. «Così succedeva che ospitassimo per una notte il figlio di qualche contadino, fornitore della nostra ditta: gli lasciavamo una stanza e il giorno dopo il papà ce la faceva bonificare con lo zolfo, per far morire i pidocchi che questi soldati in licenza avevano addosso». Tanti sono i ricordi di feriti, mutilati e anche di morti. In un paio di occasioni, gli sequestrarono temporaneamente la carta d’identità, dandogli in mano un badile per riempire, con altri civili, un enorme cratere a Veronetta e per scavare fra le macerie in una scuola vicino alla chiesa di Sant’Eufemia, dove perì una donna. «Soprattutto, ricordo ancora la mattina in cui l’amico Ferruccio Vischioni, mio vicino di casa, dopo aver saputo che il ponte ferroviario di Peschiera era stato bombardato, mi chiese di accompagnarlo a cercare il padre che lavorava là – prosegue –. Andammo all’ex maternità di Borgo Trento, dov’erano stati portati i feriti, ma lui non c’era, nemmeno tra i cinque corpi straziati che vedemmo nello scantinato. Il padre lo ritrovammo poi: “Ho male alla gamba”, ci disse, ma la gamba non c’era più e lui non sopravvisse a lungo».
Liberazione e ricostruzione
Infine arrivò il 25 aprile 1945. «Lo considerai una liberazione anche dalla scuola, che fu interrotta: ci sarebbero stati gli esami di riparazione, ma non li feci – ammette Gianfranco –. Quel giorno pedalai da Tomenighe a Bardolino per prendere mio fratello Mario e riportarlo a casa», conclude. Il resto è storia familiare: il 30 luglio 1960 sposa Giovanna Mazzucato, classe 1940 («Anche lei sfollata coi genitori, all’età di due anni»), insieme avranno tre figli e cinque nipoti. Per Gianfranco, una vita di lavoro: dal 14 agosto 1945, per due anni all’Ima (Industria macchine alimentari), quindi nell’attività di famiglia, poi cessata; una parentesi a Milano col cugino Augusto e, dopo un concorso, dal primo settembre 1953 una lunga carriera in ascesa in Agsm, fino all’ottobre 1992. «Guardando indietro, posso dirmi contento così». 

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