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C'era una volta (e ci sarebbe ancora) la Provincia di Verona

Quasi soppressa da Renzi, sopravvive a stento. Ma la Lega vuole rilanciarla...

Parole chiave: Legge Delrio (1), Provincia (47), Enti locali (1)
C'era una volta (e ci sarebbe ancora) la Provincia di Verona

“Ma non le avevano chiuse le Province?”. Si potrebbe partire da qui. Da questa domanda che ci rivolge un’amica quando sente che stiamo lavorando a un servizio proprio sulle Province. È comunque la domanda che si pongono in molti e dimostra come attorno a questo ente ci sia una certa nebbia, ancora lontana dal dissolversi. L’unica certezza è che le Province ci sono ancora e, almeno nei prossimi anni, non sono destinate a scomparire; anzi, a sentire le dichiarazioni di chi ci governa – soprattutto sul fronte leghista – si sta lavorando ad un dietro-front che le riporterebbe in auge. Questo almeno a parole, perché poi le intenzioni (vere o simulate) si scontrano con la realtà dei fatti, che è quella di organi completamente svuotati di competenze, risorse economiche e umane, che necessitano quindi non di essere ristrutturati, ma ripensati.
Se Verona rappresenta ancora un’isola felice, in Italia ci sono situazioni paradossali: enti in dissesto o pre-dissesto finanziario, arrivati anche a lasciare gli istituti scolastici senza riscaldamento o a dover tappare le buche sulle strade con il ghiaino recuperato dai bordi della carreggiata.
Come siamo arrivati qui?
La situazione attuale è figlia di un tentativo malriuscito di abolire questo ente, che ha subìto nell’ultimo decennio un processo di demonizzazione. Certamente le Province non erano la sede dell’efficienza dell’apparato amministrativo, ma l’opinione pubblica è stata senza dubbio indirizzata dall’emergere di partiti politici che della lotta ai costi della pubblica amministrazione hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Non di poco conto sono stati i contributi della satira e della comicità televisiva e cinematografica: si pensi al film Quo vado in cui l’irriverente Checco Zalone interpreta un impiegato dell’ufficio provinciale caccia e pesca, disposto a tutto pur di conservare il “pubblico posto fisso”. E non far nulla…
Riforma e legge Delrio
Come tutti ricorderanno, il processo di abolizione degli enti provinciali portato avanti dai governi di centrosinistra, si è incagliato nella bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Certo, allora gli italiani non votarono nel merito della questione – l’eliminazione delle Province dalla Costituzione – ma, per scelta di Matteo Renzi, il voto referendario si era trasformato in un giudizio sul presidente del Consiglio e sul suo governo.
Il fallimento ha mandato a gambe all’aria l’iter di riforma, lasciando in eredità agli esecutivi successivi delle strutture amministrative senza capo né coda, anche dal punto di vista giuridico.
Infatti, la legge che aveva dato avvio allo smantellamento, la 56/2014 (più nota col nome dell’allora ministro, legge Delrio), era nata per essere transitoria e considerava una mera formalità il passaggio referendario. Il comma 51 recita chiaramente: “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le Province sono disciplinate dalla presente legge”, rendendo necessario oggi un intervento correttivo del legislatore.
Il futuro
Ma che farne quindi di questi carrozzoni? Completo ritorno al passato o un “altro” tutto da definire? Nelle scorse settimane se ne è parlato anche a Verona, all’interno di un convegno organizzato in università. L’unico dato certo emerso è che si punta ad un ente “snello, veloce ed efficiente”. Bene, bello. E poi?
Nel concreto è stato allestito dal governo gialloverde un apposito tavolo tecnico, guidato dal sottosegretario Stefano Candiani; ma il processo di riordino non sarà breve, perché richiede un lavoro minuzioso e non porterà grossi consensi elettorali; senza considerare che le rinate Province avranno bisogno di finanze: un gettito costante di cui lo Stato centrale dovrà privarsi nel momento in cui sta rompendo ogni salvadanaio per pagare reddito di cittadinanza e quota 100.
Le proposte dell’Upi
In ogni caso, le proposte più lucide e puntuali sembrano quelle che arrivano dall’Upi, l’Unione delle Province italiane. Come illustrato dal direttore generale Piero Antonelli, occorre anzitutto evitare gli errori commessi in passato, come la proliferazione smisurata delle Province e il voler imitare il grande Comune, accollandosi miriadi di compiti che non spettavano loro. «La Provincia – spiega Antonelli – dovrà essere un ente di area vasta, sovracomunale, con organi politici riconosciuti, autonomia finanziaria e organizzativa».
Vanno conservati gli aspetti positivi introdotti dalla legge Delrio, come il rilievo dato all’assemblea di tutti i sindaci come organo politico e le stazioni uniche appaltanti, che accentrano gli appalti dei Comuni creando economie di scala. Tra le funzioni che sicuramente non potranno mancare in capo all’ente, la pianificazione strategica del territorio e l’ambiente, con le autorizzazioni e i controlli dell’attività ittico-venatoria e del patrimonio faunistico.
In quanto agli organi, oltre alla già citata assemblea dei sindaci, l’Upi sostiene la necessità di tornare alle elezioni dirette, per dare legittimazione al presidente, alla giunta (oggi scomparsa) e ai consiglieri, che necessitano di una remunerazione per dedicarsi a tempo pieno a questa attività. Oggi infatti l’attività del presidente, che richiede comunque una presenza quotidiana, è svolta a titolo gratuito, riducendo le possibilità di svolgere tale ruolo ai pensionati o a chi può sospendere l’attività lavorativa e dispone comunque di un reddito di cui vivere.
Regioni e autonomia
Non va trascurato infine che l’intero processo di riordino si inserisce all’interno di un’altra questione, quella delle autonomie regionali, che potrebbe complicare il già intricato quadro, ma allo stesso tempo essere una forza propulsiva per l’iter, essendo (questo sì) un tema politicamente caldo e foriero di consensi elettorali.

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