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Il pantheon di Marino

di ERNESTO KIEFFER
Nella sua trilogia Bartoletti racconta numerosi personaggi famosi facendone emergere il lato umano

Il pantheon di Marino

Marino Bartoletti è stato un’icona del giornalismo sportivo italiano: non solo ha diretto il Guerin Sportivo e RaiSport e condotto programmi come Il processo del lunedì, La Domenica Sportiva e Pressing, ma ha anche ideato il fortunato format calcistico di Quelli che il calcio ed è stato uno dei massimi esperti del Festival di Sanremo, di cui è stato critico musicale per numerose edizioni. Negli ultimi anni, dopo essersi dedicato a lungo ai libri per bambini, si è (ri)scoperto anche autore di livello e, ça van sans dire, penna sopraffina.
Dopo il grande successo de La cena degli dei e Il ritorno degli dei Bartoletti completa oggi la trilogia edita da Gallucci con La discesa degli dei (pp. 368 – euro 16,50), a suo dire ultimo capitolo della serie dedicata ai miti musicali, sportivi, cinematografici dell’ultimo mezzo secolo.
Nei giorni scorsi, nel corso del tour che sta portando in giro per l’Italia per presentare la sua opera, è passato anche dalla Libreria Feltrinelli di Verona, dove abbiamo potuto ascoltare le sue parole.
– Bartoletti, cosa aggiunge questo terzo episodio rispetto ai precedenti due capitoli?
«Ho passato l’inverno successivo all’uscita del primo libro a esaminare lettere e messaggi di amici che mi suggerivano personaggi più o meno noti con cui animare l’episodio successivo. Dopo la morte di Diego Armando Maradona e quella di Paolo Rossi, per me due grandissimi amici, non potevo però che dedicare a loro il secondo volume. In quel caso, per aggiungere un elemento più dinamico rispetto al primo capitolo, ho fatto sì che i protagonisti avessero una missione a testa, da compiere in massimo dodici ore, sulla Terra. Nel terzo libro i sei dei coinvolti scendono tutti sulla Terra per compiere una missione a testa e realizzare il sogno di alcuni ragazzi che hanno richiesto il loro aiuto. Ho scritto La discesa degli dei in diciannove notti estive, fra fine agosto e inizio settembre. Per tutta l’estate mi ero preparato in realtà su un personaggio in particolare, che poi non ho nemmeno usato. Sono andato avanti soprattutto con i miei ricordi, molti dei quali del tutto personali. D’altronde questo è un tipo di libro che non puoi scrivere se non conosci bene le persone di cui parli».
– Le sue opere rappresentano di fatto anche un omaggio alla sua professione, quella di giornalista…
«Questo è un omaggio soprattutto a questi personaggi, anche se non c’è un effettivo bisogno di farli vivere, visto che in realtà vivono già nel cuore di tutti noi. Qui però racconto aneddoti inediti e abbino fatti reali a una tessitura di fantasia. Sono orgoglioso e felice di aver avuto la possibilità di raccontare questi personaggi, avendoli tutti conosciuti in vita. E in effetti non avrei mai potuto scrivere questi libri se non avessi avuto 50 anni di esperienza giornalistica alle spalle. Qui però non c’è soltanto il giornalista, perché c’è soprattutto Marino. Con il suo carico di gioie, dolori, speranze, delusioni, conoscenze. E, perché no, di fantasia».
– Com’erano questi personaggi nella loro vita privata?
«Erano quasi tutti uguali alla rappresentazione che abbiamo di loro. Pantani, ad esempio, era una persona meravigliosa e triste, esattamente come Maradona. Villeneuve quando arrivò in Italia nel ’77 era un signor nessuno e si presentò con una tuta sdrucita in conferenza stampa. Sembrava un pulcino bagnato che si guardava attorno come se fosse arrivato a Disneyland, ma aveva veramente il sacro fuoco dentro e non a caso Enzo Ferrari lo amava particolarmente. Poi lo vedevi nei box mentre, fra un giro di prova e l’altro, si rilassava suonando la tromba. Avevano in generale tutti un’umanità che qualche volta hanno espresso pubblicamente, ma che il più delle volte hanno tenuto riservata».
– A proposito di riservatezza, lei utilizza molto i social oggi. Come mai?
«Nelle fortune che accredito alla mia vita c’è quella di aver vissuto 60 anni senza social. Poi ho ceduto alle insistenze di chi mi chiedeva di cominciare a usare questo strumento e alla fine sono persino usciti cinque libri che raccolgono i pensieri che esprimo su Facebook. D’altronde l’unica cosa che so fare è raccontare storie che sembrano favole e favole che sembrano storie, mettendo sul piatto serietà e competenza».
– Gianni Minà, Gianni Mura, Gianni Brera, Maurizio Crosetti, lei… il giornalismo sportivo nel nostro Paese ha vissuto in passato grandi fasti ma oggi è in crisi, anche a causa di come lo sport è strutturato, con le sue regole e i suoi dettami piegati allo show-business. Che ne pensa?
«Io sono molto fortunato perché appartengo a una generazione che ha potuto crescere con alcuni grandi maestri in un periodo in cui si potevano toccare con mano i rapporti umani. Spesso mi chiedono come facevo a intervistare Maradona. Ebbene, lo chiamavo semplicemente a casa, senza passare da alcun addetto stampa. E se Diego non rispondeva allora chiamavo il suo compagno di squadra Bruscolotti che diceva alla propria moglie, amica della moglie di Maradona, di riferirgli che lo stavo cercando, chiedendogli di richiamarmi. E lui appena poteva mi richiamava. Oggi sarebbe a dir poco impensabile perché molto di tutto questo si è annacquato. Si è persa di vista, nella narrazione moderna, la cosa più importante: i sentimenti».
– Lei ha voluto regalarci, nei suoi libri, sempre il lieto fine. Come mai?
«Nella mia vita, anche di recente, ho vissuto delle vicende personali che non hanno avuto purtroppo il lieto fine. Le mie sei storie non potevo pensarle, allora, con un finale diverso. Più scrivo e più mi convinco che c’è un al di là. Vorrei dare un messaggio di speranza a un mondo che sono contento di aver vissuto. La mia data di nascita, 1949, non la baratterei con nessun’altra. Ho visto un’Italia bella, unita crescere, remare verso una direzione sola. Sempre con la voglia di guardare avanti e rialzarsi, guardandosi allo specchio e rilevando le sue grandi qualità come la genialità e l’intraprendenza. Ecco, almeno nell’immaginazione a me piace pensare che le cose possano finire sempre bene».

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