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La leggerezza pensosa di Mattioli sull’opera lirica. E quanto all’Arena...

Apprezzato giornalista de La Stampa di Torino, Alberto Mattioli ha appena pubblicato per Garzanti un sapido volume intitolato Pazzo per l’opera. Istruzioni per l’abuso del melodramma

Apprezzato giornalista de La Stampa di Torino, Alberto Mattioli ha appena pubblicato per Garzanti un sapido volume intitolato Pazzo per l’opera. Istruzioni per l’abuso del melodramma. Si tratta di una silloge di elzeviri dedicati appunto alla passione divorante dell’autore per il teatro musicale, nella quale troviamo schizzi cronachistici riguardo varie messinscena, riflessioni sulla qualità di talune voci eccezionali (Callas, Pavarotti, Freni, tra le molte), disamine su regie antiche e contemporanee: il tutto con un gusto e una cura di stile rimarchevoli, che alla polemica culturale – specie riguardo le regie – alterna l’osservazione minuta di una tradizione di civiltà. Tutti pregi per i quali si possono perdonare taluni giudizi categorici fuori bersaglio: l’esigenza registica di “svelare le metafore” del testo drammatico-musicale, per esempio, dogma sul quale Mattioli giura come sul Mistero trinitario, pare a molti una pratica che annulla la forma simbolica, sostituendo il significante con il significato (meglio: con un significato presunto, ridotto, parziale, angusto), facendo a pezzi la testualità di impianto. Ed è un tema di dibattito certo meritevole di ben più d’una serie di battute sferzanti, di che il libro abbonda, peraltro con piglio ironico molto ben dosato.   
Sul ruolo che l’opera ha nella cultura nazionale, l’autore scrive le pagine migliori. Si veda il capitolo intitolato In un vecchio palco della Scala, in cui Mattioli indica l’essenza di quel teatro nella vocazione a “essere avanguardia”, in una dimensione in cui il qui e adesso della civiltà si è sempre palesato al suo più alto grado di pregnanza culturale e di pervasività sociale. L’opera era nel passato un’autentica necessità di testimonianza e di formazione intellettuale, che giustificava la presenza di tanti personaggi celebri, i quali non declinavano una piatta mondanità, bensì qualcosa di più rilevato: un’affermazione di appartenenza, italiana ed europea, che alla Scala guardava come alla sua più spettacolare e profonda rappresentazione. E questa notazione non significa però volgersi malinconicamente indietro, bensì trarre dalla Storia quello stimolo vitale a proporre sulla scena l’urgenza dell’arte più tipicamente italiana, nella consapevolezza che il teatro è sempre stato riflesso e ispirazione di svolte sociali, di sapere diffuso, di rispecchiamento della realtà. Attraverso il filtro dell’antico per capire come siamo adesso. Un ruolo cui purtroppo, nota l’autore, la Scala pare aver rinunciato da almeno trent’anni.
Colpiscono in particolare i veronesi le parole di Mattioli dedicate all’Arena. Che l’anfiteatro non sia il luogo deputato all’innovazione e alla meditazione estetica è cosa innegabile. E allora, cosa lega milioni di persone ai nostri spettacoli? Lasciamo la parola all’autore, qui in uno dei suoi momenti più preziosi: “le vecchie meravigliose pietre dell’Anfiteatro incendiate dal sole del tramonto, Verdi e Puccini di tutti e per tutti, il Listòn animatissimo e coloratissimo, gli stranieri ammirati da questa nostra grande bellezza e dalla sprezzatura con cui l’esibiamo, la folla felice che sciama sulla piazza a spettacolo finito, la dolcezza estenuata e un po’ sfatta della notte padana, lo spaghettino e il Soave alle due del mattino, commentando e ridendo. L’opera, la piazza, la festa: cosa ci può essere di più italiano, e di più bello, di questo?”.
Un libro piacevolissimo, contesto d’una leggerezza pur pensosa che solo i giornalisti di razza possiedono.

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