Pentagrammi
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Il Festival di Salisburgo e la formazione di un nuovo pubblico

Pare che si svolgerà ugualmente, pur in versione riveduta e corretta, lo storico Festival di Salisburgo, che compie in questo sciagurato 2020 i cento anni dalla fondazione...

Parole chiave: Festival Salisburgo (1), Pentagrammi (37)

Pare che si svolgerà ugualmente, pur in versione riveduta e corretta, lo storico Festival di Salisburgo, che compie in questo sciagurato 2020 i cento anni dalla fondazione. Nel 1920 furono tre grandi artisti a promuovere, nella città mozartiana, un appuntamento annuale di grande musica e grande teatro: il regista Max Reinhardt, lo scrittore Hugo von Hofmannsthal e il compositore Richard Strauss ebbero l’idea di sistematizzare, nel mese di agosto, una serie di eventi a impianto organico, che anche prima, a partire dal 1877, si erano bensì tenuti nella città austriaca, ma senza periodicità fissa, e con lunghe pause tra un’edizione e l’altra. Erano anni di grande fermento culturale e di terribili contingenze sociali e politiche, dopo il crollo dell’Impero e l’area germanica intera alle prese con un dopoguerra tragico dal punto di vista economico. La cultura poteva essere una risposta, allora, laddove per cultura si intendeva non già, in senso estensivo, l’insieme delle manifestazioni e forme di vita caratteristiche di un popolo, secondo un criterio descrittivo di ordine antropologico, bensì un altissimo concetto di valore, di ideale consapevole. Riferirsi a un ideale, dunque, significava ricostruire; allestire rappresentazioni teatrali, operistiche o concerti sinfonici e da camera era rivolgersi al popolo per rammemorare un’origine comune, un senso collettivo, una qualità umana dell’essere nella propria casa, città, patria. Uguale dovrebbe essere anche oggi, in Paesi di avanzato civismo, il concetto di comunità che si ritrova e identifica nel gesto teatrale o concertistico.
Al momento attuale, dall’organizzazione non vengono informazioni sul programma. Stando le cose come le conosciamo ora, verrà ridimensionato, con meno posti per il pubblico e certo con un numero minore di serate. Ma il segnale è chiaro, la volontà è forte, e può contare sull’appoggio di un pubblico che in quella cultura crede, che nella musica trova parte fondamentale della propria identità. Notiamo purtroppo in questo un divario al momento incolmabile rispetto all’Italia, perché per la musica colta nel nostro Paese il pubblico si va sempre più assottigliando, i giovani (ma ormai anche i quarantenni) ne restano lontani e non esiste dunque quel ricambio generazionale necessario per il prosieguo dell’attività. Abbiamo tutti visto la preoccupazione, le richieste al limite del disperato da parte dei musicisti, dei cantanti, delle maestranze tecniche dei teatri: già, ma con il sostegno di chi? A quanti interessa l’Opera, a quanti la musica sinfonica e da camera? Cos’ha fatto la civiltà italiana negli ultimi cinquant’anni per creare un nuovo pubblico? Nulla la scuola superiore, nell’età cruciale di ciascuno; nulla la più grande agenzia culturale di Stato, la Rai (nulla negli orari strategici e nelle tre reti di maggior impatto, intendiamo, e nulla per promuovere la nicchia minima di Rai 5). Ecco il nodo della questione e l’obiettivo a lungo termine che una politica degna di questo nome dovrebbe prefiggersi, appunto la formazione culturale, per una società che torni ai concerti e a teatro. Senza questo impegno severo, pompare soldi alle Fondazioni servirà a poco, e sarà anche sempre più discutibile: per quale ragione lo Stato dovrebbe infatti investire in qualcosa che da nessuna parte è ritenuta importante, non dalla scuola, non dalla comunicazione di massa, non dallo stile di vita di ciascuno? Da quel che si vede oggi, la notte è più nera che mai. E il virus c’entra solo in parte.

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