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L’Africa, quell’enorme calderone che fatichiamo a comprendere

Giovane, popolosa, in forte crescita, estremamente variegata e... poco conosciuta

Parole chiave: Nel Mondo (10), Africa (19)
L’Africa, quell’enorme calderone che fatichiamo a comprendere

“Aiutiamoli a casa loro”. “Bisogna organizzare un piano Marshall per l’Africa”. “È necessario distinguere tra migrazioni economiche e politiche”. La nostra conoscenza dell’Africa spesso si limita alle frasi fatte e agli slogan elettorali che sentiamo ripetere nei talk show televisivi. Ci sono pochi posti al mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che in realtà sappiamo, è così ampio come nel caso di questo continente. Le semplificazioni non rendono giustizia alla complessità di una terra in cui convivono 54 Paesi con situazioni politiche, economiche e sociali molto diverse, abitati da migliaia di etnie.
Per correggere questa miopia servono gli strumenti giusti: sono quelli che Giuseppe Mistretta, direttore del dipartimento per l’Africa sub-sahariana del ministero degli Esteri, tenta di offrire ai lettori con Le vie dell’Africa - Il futuro del continente fra Europa, Italia, Cina e nuovi attori (Infinito Edizioni). Ex ambasciatore in Angola e in Etiopia, Mistretta è stato ospite dell’ultimo incontro dei “Martedì del Mondo” organizzati dai padri comboniani. Forte della sua esperienza ventennale, il funzionario ha raccontato le distorsioni che condizionano il nostro modo di vedere l’Africa, analizzandone le sfide e provando a metterne a fuoco le soluzioni.
Bisogna innanzitutto riconoscere che quello che succede al di là del Mediterraneo ci riguarda da vicino. Siamo spesso portati a credere di vivere in mondi diversi, ma non è così. L’interconnessione è evidente non solo per le carovane di migranti che attraversano il continente, ma anche per fenomeni quali il terrorismo, la lotta al cambiamento climatico e gli scambi commerciali. Opportunità e sfide complesse, che richiedono alleanze, partnership e soluzioni condivise. E l’Italia, all’interno del contesto europeo, può svolgere un ruolo cruciale, sia per la prossimità geografica che per le vicende storiche e le tradizioni profonde che ci legano indissolubilmente al continente. Semplificare le questioni africane significa quindi ignorare anche il futuro del nostro Paese.
Se è vero che ogni Stato fa storia a sé, ci sono alcuni trend che accomunano tutto il continente: inquadrarli correttamente è importante per comprendere meglio la realtà. È ad esempio vero che lo sviluppo economico – che in alcuni Paesi è ormai una solida certezza – si accompagna spesso a una debolezza cronica delle istituzioni democratiche. L’Africa pullula di leader autoritari che, una volta conquistato il potere, modificano le Costituzioni, aggirando il vincolo dei mandati presidenziali.
Quello che spesso si perde di vista è che gli Stati africani sono relativamente giovani e hanno alle spalle – nel migliore dei casi – 60 anni di vita. Serve quindi pazienza, realismo e comprensione: è normale che il cammino verso la democrazia non sia una linea retta, ma sia costellato di cadute, fallimenti e ripensamenti. Dopotutto, la maggior parte degli Stati europei ha avuto diversi secoli a disposizione per assumere la forma che conosciamo oggi: per questo motivo è importante guardare all’attualità con le lenti della storia e valutare gli eventi inserendoli nella giusta prospettiva.
Quando si parla di Africa, non si fa mai abbastanza attenzione alle dimensioni: solo per avere un termine di paragone basti pensare che un Paese come l’Algeria è grande sette volte l’Italia, mentre in Nigeria vivono oltre 200 milioni persone. Governare su territori così ampi, abitati da etnie diverse, sarebbe una sfida complicata per qualsiasi classe dirigente. Sviluppare sistemi amministrativi efficienti richiede molto tempo, energie e risorse: spesso lo sviluppo economico non riesce a coprire gli ingenti costi che lo Stato deve sostenere per garantire sanità, istruzione, infrastrutture e servizi di base a tutta la popolazione. Non è solo questione di corruzione o di incapacità, ma anche di oggettive difficoltà di governance.
Sul fenomeno delle migrazioni, poi, i pregiudizi rischiano di offuscare del tutto la mente. Siamo spesso abituati a pensare ai migranti come a persone povere e senza istruzione, in fuga da guerre e carestie. In realtà, a lasciare ogni anno l’Africa sono anche tantissimi ingegneri, medici, scienziati, insegnanti e professionisti. Le famiglie benestanti del continente mandano i propri figli a studiare nelle migliori università europee o americane. Una volta ottenuta la laurea, i giovani si fermano nei Paesi che li ospitano per ottenere i riconoscimenti professionali che meritano, guadagnare e fare carriera. La fuga di cervelli non riguarda solo l’Italia: se ne sente parlare poco perché, forse, agli Stati occidentali questa “immigrazione di qualità” conviene. Ma il danno è incalcolabile perché priva l’Africa della sua classe dirigente, minandone irrimediabilmente lo sviluppo.
Quando pensiamo alla cooperazione, ci vengono in mente scuole elementari, ospedali e pozzi. Secondo le stime, la maggior parte degli oltre 1.500 miliardi di dollari spesi dalla comunità internazionale negli ultimi 60 anni è stata effettivamente usata per rispondere ai bisogni primari della popolazione. Oggi, però, gli aiuti stanno andando verso nuove direzioni, perché i bisogni degli africani sono in parte cambiati. Una fetta sempre più importante viene ad esempio investita nella formazione professionale.
Per restituire l’Africa agli africani, è fondamentale formare elettricisti, informatici e operai specializzati: nuove professionalità in grado di sostenere per conto proprio lo sviluppo economico del continente.
A intervenire in questo settore non sono solo le università occidentali, ma anche le imprese multinazionali che operano nel continente. Nel giro di vent’anni la forza lavoro africana sarà superiore a quella della Cina e ogni anno 12-15 milioni di giovani si affacciano sul mercato in cerca di un’occupazione: è questo il motivo per cui oggi la cooperazione cerca di rispondere non solo ai bisogni primari, ma anche all’esigenza di formazione professionale che viene dalle nuove generazioni.
Le distorsioni riguardano infine anche la politica internazionale. Se all’epoca del colonialismo l’Africa veniva vista come una terra da depredare, oggi viene spesso considerata come un problema da risolvere. Esiste però una terza via percorsa da attori come Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Russia che può aiutarci ad aprire gli occhi sulla realtà: quella delle partnership. Negli ultimi anni, questi Paesi sono stati abili nello stringere legami e intessere relazioni, barattando investimenti in infrastrutture per favori commerciali, appoggi politici per accordi economici vantaggiosi.
Se i leader autoritari di questi Stati nascondono spesso agende segrete riprovevoli, è pur sempre vero che hanno intuito le potenzialità del continente, l’importanza di avere una strategia di lungo termine e la necessità di investire in nuove alleanze.
È forse questa la visione che oggi manca alla classe dirigente italiana: la situazione inizierà finalmente a cambiare quando il dibattito pubblico si farà meno ideologico, si smetterà di parlare di Africa a suon di frasi fatte e saremo finalmente in grado di sviluppare una politica coerente e basata sui fatti.

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