La bocca sollevò dal fiero pasto
Dante sta concludendo il suo viaggio nell’Inferno. Giunge nel frattempo, accompagnato da Virgilio, nel nono cerchio, nella zona del Cocito, tutto ghiaccio, denominata Caina...

Dante sta concludendo il suo viaggio nell’Inferno. Giunge nel frattempo, accompagnato da Virgilio, nel nono cerchio, nella zona del Cocito, tutto ghiaccio, denominata Caina. Dopo aver inciampato sulla testa di vari condannati, immersi fino al collo nel ghiaccio, incontra il conte Ugolino, potente signore di Pisa, di parte guelfa, nell’atto di rodere il capo del suo traditore, il vescovo di Pisa Ruggeri. Questo vescovo, ghibellino, fece imprigionare con un inganno il conte nella torre dei Gualandi, dove morì di fame, con i suoi due figli e due nipoti. Ugolino narra la sua tragica fine, dopo giorni di agonia. Tutto il canto XXXIII è improntato al senso tragico della vita. In sé vale una tragedia greca. La tragedia è espressa da una morte per fame, dapprima sperimentata sui figli e sui nipoti. L’intero canto merita di essere conosciuto. Ne metto in risalto solo alcuni tratti. Anzitutto, il gesto belluino del conte, nell’atto di rodere il capo del suo nemico: “La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a’ capelli / del capo ch’elli avea di retro guasto”. Prosegue il racconto di Ugolino, mentre evoca lo sguardo atterrito dei figli e dei nipoti che lo stanno fissando in volto: “E disser: ‘Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia”. Scende un silenzio terrificante: “lo dì e l’altro stemmo tutti muti: / ahi dura terra, perché non t’apristi?”. E poi il grido di soccorso del figlio: “Padre mio, chè non m’aiuti?”. Ecco il colmo della tragedia: “Quivi morì; e come tu mi vedi, / vid’io cascar li tre ad uno ad uno / tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti: / poscia più che ’l dolor potè ’l digiuno”.
Anche in questo canto dell’Inferno raccogliamo almeno due riflessioni. La prima: tradire è un verbo inumano! Tradire il coniuge, gli amici, i benefattori fa parte delle azioni che maggiormente squalificano la persona umana. Ora, proprio la fedeltà a Dio, che l’Anno giubilare ci tiene fissata sul suo orizzonte, è garanzia anche di fedeltà tra gli uomini. E la seconda riflessione: Ugolino, con figli e nipoti, morì di fame! Ci sta davanti la tragedia della morte per fame di troppi bambini nella striscia di Gaza! Nell’Anno giubilare, che sollecita alla riconciliazione, è un appello all’intera umanità.
† Giuseppe Zenti
Vescovo emerito di Verona
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