Raccontare il Signore risorto non è questione di parole o strategie comunicative
Ci sono parole e frasi che, a forza di sentirle, siamo convinti di saperne tutto senza segreti. Poi cominci a razionalizzare, ad interrogarti sul loro reale significato ed è allora che casca l’asino
Ci sono parole e frasi che, a forza di sentirle, siamo convinti di saperne tutto senza segreti. Poi cominci a razionalizzare, ad interrogarti sul loro reale significato ed è allora che casca l’asino. In questi cinquanta giorni pasquali una delle affermazioni più ricorrenti nelle Scritture è che i discepoli annunciavano che il loro Maestro era risorto dai morti. Affermazione fondamentale, ovvia verrebbe da dire, che per estensione dovrebbe essere il dovere morale dei battezzati di tutti i tempi. Ma cosa vuol dire annunciare la risurrezione? Può ridursi ad una affermazione verbale, quasi un mantra analogo alle verità di fede, che recitiamo spesso di corsa senza che lascino tracce reali nel nostro modo di vivere? Oppure si tratta di una consolante illusione come sosteneva un giovane disincantato provocatore, convinto che essa sia solo la proiezione della speranza di immortalità davanti al fallimento della morte?
Non è cosa semplice annunciare la risurrezione. Non lo è mai stato e ancora di più di questi tempi. Oltretutto abbiamo nei vangeli un prototipo di quanto sia stata precoce questa fatica. Penso al buon Tommaso convinto, allora come ora, che la verità si identificasse con la sperimentabilità. Se non vedo non credo. Una cultura scientista ante litteram, per dire che è vero solo ciò che è dimostrabile. Eppure basterebbe poco per capire che il più dell’esistenza e del mondo sfugge alla sperimentabilità. Si vada ai nostri pensieri nascosti, alle ansie, ai sentimenti che condizionano fortemente la vita senza che nessuna Tac o risonanza magnetica ne registrino la presenza. A questa difficoltà andrebbe poi aggiunta quella derivante da un altro aspetto della cultura, quella che ci porta a credere che sia la tecnica a risolvere le faccende della vita. Per ogni problema c’è una soluzione esterna, che solo in minima parte fa dipendere lo stare bene dalla nostra vita interiore. I giovani non rifiutano la fede perché indolenti o non disponibili. Semplicemente perché sono cresciuti dentro certi orizzonti culturali, fino a renderli convinti che quello che serve non è un Dio vivo che fa girare la storia. Li abbiamo immersi in un mondo di numeri, quelli del Pil, del potere d’acquisto, delle statistiche, dei bancomat, del Ricovery Fund, del Reddito di cittadinanza…
È in questa cultura che diventa difficile annunciare la risurrezione, perché essa è possibile solo dove ci sono coscienze che accettano di rimettersi in gioco, lasciando che dentro torni a fiorire la primavera. Dire Cristo Risorto non è affermazione verbale, ma una esistenza nuova dove la sua presenza comincia a diventare un segnale visibile, capace di raccontare al mondo i lavori in progress, ossia una novità che si fa largo nel buio di esistenze intristite. Penso ai primi cristiani che hanno ribaltato una potenza come quella dell’Impero romano, nonostante la persecuzione e, soprattutto, senza alcun strumento di potere. Non avevano potere politico, tantomeno economico. Non avevano mezzi di comunicazione, ambiti strutturali in cui creare opinione. Riparavano nelle catacombe dove lasciavano i segni dei loro riti. Ebbero però dalla loro l’annuncio di vite rinnovate all’insegna dell’amore fraterno e di quella solidarietà umana che ne faceva dei testimoni incontenibili, non senza la gioia che raccontava nei visi ciò che passava nel cuore.
Era dalla primavera delle loro vite che partiva il suono di campane a festa, richiamo di esperienze contagiose capaci di dire che il Signore in cui dicevano di credere era davvero vivo e capace di rendere viva la loro esistenza.
Non fu la cultura a cambiare la storia e neppure le strategie esperte di un mondo clericale. Furono uomini e donne nuovi a dire che la morte non aveva più la vittoria sui destini tristi delle creature.
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