Il Fatto di Bruno Fasani
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Quelle presunte verità che puzzano di livore

Caro vescovo Carlo Maria Viganò, la chiamo così perché un caro ad inizio corrispondenza non si nega a nessuno. Ma le confesso che nasconde più forma che sostanza...

Parole chiave: Carlo Maria Viganò (1), Il fatto (415), Bruno Fasani (323)

Caro vescovo Carlo Maria Viganò, la chiamo così perché un caro ad inizio corrispondenza non si nega a nessuno. Ma le confesso che nasconde più forma che sostanza. E non perché provi rancore verso di lei. Semplicemente perché mi ha causato un disagio che fatico a smaltire, anche perché gli attacchi contro il Papa di solito mi arrivavano da persone che ragionano più di pancia che di testa. Sentire un vescovo che chiede al Papa di andarsene fuori dai piedi mi ha disorientato.
Mi hanno insegnato che il Papa è il vicario di Gesù Cristo sulla terra e i vescovi sono i rappresentanti degli apostoli. Me l’hanno detto, ci ho creduto e lo sto ancora credendo. Mi chiedevo in una ipotetica rappresentazione simbolica a quale degli apostoli associarla. L’idea, personalmente me la sono fatta, ma lascio che siano i lettori a scegliere in quale tipologia collocare il suo stile.
Non mi era mai capitato nella vita di sentire un vescovo chiedere le dimissioni del Papa. La sua è una chiamata a raccolta dei malcontenti, o lei ne è diventato l’amplificatore? Il mondo, da giorni sta letteralmente impinguandosi delle sue esternazioni contro papa Francesco. Ogni giorno una nuova, pescata nel pozzo limaccioso del livore e rivenduta ai suoi amici compiacenti di fede rigorosamente tradizionalista, ai quali non pare vero di portare a casa tanto autorevole bottino. Papa Francesco ha detto che la verità è mite e silenziosa, perché non ha bisogno di parole e di clamore per imporsi. Verrebbe da chiedersi a quale categoria semantica attribuire il can can che lei sta sollevando.
Vede, monsignore, io appartengo ad una  generazione che ha visto passare sette Papi nella propria vita.  Ovvio che qualcuno mi è piaciuto più di altri, ma credo di poter dire, senza essere smentito, che Dio mi ha fatto vedere dei giganti. Compreso l’ultimo. Quando nel 2013 si andò verso il Conclave, ricordo che qualche giorno prima durante una cena con amici che mi sono testimoni, dissi che sognavo un Papa che avesse il coraggio di chiamarsi Francesco. Il perché lo lascio dedurre a lei.
Era nell’aria il bisogno di un pastore che portasse la semplicità del Vangelo lungo le strade, essenziale nei bisogni e nello stile di vita, lontano anni luce dalle corti, più borghesi che aristocratiche, che lei ha frequentato nell’esercizio della sua professione. Si è presentato al mondo, spoglio di quegli orpelli che ne potessero fare un principe ingioiellato. Non ha fatto un giorno di ferie, si è preso una stanzetta a Santa Marta, va a mangiare in mensa con gli altri, va a comprarsi scarpe e occhiali tirando fuori il portafoglio per pagarsi di persona, evitando quel parassitismo clericale dove tutto è dovuto a sbaffo.
Più che altro papa Francesco è tornato a mettere al centro il valore della creatura, prendendo per mano ognuno per quello che è, con misericordia, senza ingabbiarlo nelle spire del moralismo e del sacramentalismo, stile che ci ha regalato pochi praticanti, spesso poco credenti, lasciando scappare tutti gli altri. Una ventata di Vangelo, che lei sta inquinando con l’afrore di accuse che puzzano di moralismo e di rivincita. Lo guardi in faccia papa Francesco, ascolti la voce dei suoi gesti e il silenzio clamoroso della sua verità vissuta. E non dimentichi di essere un successore degli apostoli. Caramente.

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