Il Fatto di Bruno Fasani
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Nelle canzoni del passato la creatività della gente capace di raccontare la vita

Un pranzo nei giorni festosi dopo la Pasqua, con tanti amici di tutte le età. Cose semplici, dove è più facile cogliere il perché la mensa sia fonte di fraternità...

Parole chiave: Bruno FAsani (325), Il Fatto (417)

Un pranzo nei giorni festosi dopo la Pasqua, con tanti amici di tutte le età. Cose semplici, dove è più facile cogliere il perché la mensa sia fonte di fraternità. Tutto all’insegna della più compassata tradizione. A cominciare dalle brave signore che stanno in cucina e che sanno fare le cose come una volta e come solo loro sanno fare. Affermazione questa che potrebbe costarmi l’accusa di maschilismo, ma che non sono disposto a rimangiarmi per tutto l’oro del mondo. Tanto più che queste signore non hanno bisogno né delle femministe che le difendano, né del politicamente corretto, perché sanno benissimo come e cosa fare per vedere riconosciuta la loro dignità.
Se la mensa celebra la loro competenza, è la fisarmonica di un giovane commensale, di una quarantina d’anni circa, a fare il resto. Si esibisce in un medley, come dicono quelli che sanno, ossia una serie di brani eseguiti uno dopo l’altro senza interruzione e in forma abbreviata. Sono canti popolari, popolarissimi. Basta che parta la prima nota, perché il fiume di voci si trasformi in coro. Mi unisco al canto e penso. Certo, le parole sono datate e un po’ naif, ma il messaggio che passa va oltre le parole.
Scontato il fatto che il canto unisca e metta allegria, scontato il fatto che tutti cantino conoscendo le parole, ciò che impressiona è vedere come in passato vi fosse una creatività dal basso capace di esprimere lo svariato scenario dei sentimenti umani. Era qualcosa che veniva dal popolo, con l’ingenuità e il fiuto istintivo del popolo, che conosceva gli umori di una società dove non esisteva la privacy e dove il cuore umano era in piazza senza bisogno che gli psicologi lo raccontassero. Che si parlasse di amore, di sogni proibiti, di lavoro, di cibo, di speranze o di guerra… era il sentire della gente che veniva incanalato e condiviso dalla coralità che lo esprimeva. Ed erano canti di singolare presa emotiva, sia per le melodie e il ritmo, ma anche per la facilità di esprimere in ritornelli facilmente memorizzabili i contenuti che si volevano raccontare.
Penso a tutto questo e realizzo che quel tempo è davvero passato, come è passata certa moda, l’arte di curarci, l’alimentazione e tanto altro. Penso soprattutto, e qui fa capolino il rammarico, ad una società indottrinata che ha perduto il gusto della creatività. Oggi vanno di moda gli influencer, che poi altro non sono che i simboli del pecoronismo dilagante. Più che le competenze e la bravura, quasi sempre conta la loro visibilità. Sono loro a dirci come vestirci, cosa mangiare, dove fare le vacanze, quali oggetti comprare e di quale marca, quale musica ascoltare e a quali condizioni possiamo dirci davvero cool. Che si pronuncia “cul”, ma nel linguaggio giovanile vuol dire chi sa destare meraviglia, approvazione. In definitiva, fantastico.
Se poi non bastassero gli influencer e lo stuolo di aspiranti tali (provate a chiedere quanti adolescenti sognano di fare questo mestiere!), è tutto il mondo del mercato a pilotarci verso i lidi dove il gatto e la volpe ci attendono al varco. Poco male, direte voi, se tutto questo fa muovere l’economia. Peccato invece che a fermarsi sia la parte migliore delle intelligenze e degli animi, senza la quale diventiamo soltanto fruitori e consumatori. E mi perdonerete un po’ di nostalgia se penso che Vecchio Scarpone o la Montanara saranno pian piano travolte dall’ultima dei Måneskin o dal brano di qualche rapper in via di provocazioni creative. Ai Brividi di Sanremo, c’è pur sempre un brivido più raspante, che è quello dell’animo della gente, che ha certamente qualcosa da dire e da cantare insieme.

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Nelle canzoni del passato la creatività della gente capace di raccontare la vita
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