Il Fatto di Bruno Fasani
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Nell’epistolario di un cardinale una vera fontana cui dissetarsi

Tra le letture che mi hanno accompagnato in questi giorni assolati, la più bella in assoluto è stata quella di un libro di Giacomo Biffi, cardinale arcivescovo di Bologna morto due anni fa, dal titolo: Lettere a una carmelitana scalza. Più che il contenuto, a farmi decidere di comprarlo era stata la grande stima per il suo autore. Ero giovane prete quando cominciai ad avvicinarmi a lui. Mi era capitata tra le mani una sua pubblicazione, Contro Maestro Ciliegia...

Parole chiave: Bruno Fasani (323), Il Fatto (415)

Tra le letture che mi hanno accompagnato in questi giorni assolati, la più bella in assoluto è stata quella di un libro di Giacomo Biffi, cardinale arcivescovo di Bologna morto due anni fa, dal titolo: Lettere a una carmelitana scalza. Più che il contenuto, a farmi decidere di comprarlo era stata la grande stima per il suo autore. Ero giovane prete quando cominciai ad avvicinarmi a lui. Mi era capitata tra le mani una sua pubblicazione, Contro Maestro Ciliegia. Era una rivisitazione in chiave teologica delle avventure di Pinocchio, metafora della creatura che si ribella alla paternità che l’ha creata. Era stata la scoperta di un mondo. Dentro quelle pagine c’era la passione del pastore, l’accutezza teologica, il senso finissimo dell’humour, l’arte di usare le parole, il coraggio di dire cose politicamente scorrette. Fu una scoperta che mi fece affezionare all’autore e a decidere di seguirlo sia pure da lontano in ciò che diceva, scriveva e faceva.
I maestri spirituali sono tali non perché li frequentiamo, ma più semplicemente perché parlano e trascinano con ciò che sono e fanno. Quando Kierkegaard diceva che «la verità è la soggettività», intendeva proprio affermare che la Verità rivelata si afferma col modo di vivere della persona credente. Con Biffi era così.
Nelle pagine di questa nuova pubblicazione sono raccolte le lettere intercorse tra l’autore e una giovane docente universitaria di filosofia, Emanuela Ghini di Bologna, poi diventata carmelitana scalza in un convento di Savona. Sono lettere che partono dal lontano 10 febbraio 1960, quando don Giacomo è un giovane prete, docente di teologia, ma anche pastore appassionato e amante dello stare con la gente. Lo snodarsi dell’epistolario lungo gli anni è il racconto di un percorso spirituale che mette insieme perle straordinarie, di passione per la Chiesa e di realismo spietato, come quando, parla di una cristianità diventata «chiacchierona, petulante, dove non c’è più conversione ma solo rivendicazioni. Dove non c’è misericordia per nessuno. Dove non c’è più il senso di Dio e neppure l’attesa del suo Regno». E lui giovane prete che si «sente d’essere una delusione per Dio» mentre confessa di «trovarsi benissimo con la gente comune e di sentirsi sempre più a disagio tra i cristiani “impegnati”, che sono immersi nelle parole, nei malumori, nelle rivendicazioni».
Ma queste brevi citazioni non devono trarre in inganno. Il libro non è una geremiade. Tutt’altro. Esso è un inno all’amore, alla misericordia, dentro un umorismo sottilissimo che racconta il distacco dalle cose e la tenerezza con cui le si valuta. Come quando contesta il “bacio del Signore” che non arriva mai per lettera.
Al termine della lettura, risulta difficile parlare ancora di libro. Più che una raccolta di parole, l’impressione è quella di trovarsi seduti accanto ad una fontana dove sostare e dove tornare ancora per abbeverarsi in tempi di incertezza.

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