Il Fatto di Bruno Fasani
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Le calamità atmosferiche sono lì a ricordarci il rispetto dovuto alla natura

È un dato di fatto che stiamo diventando tutti esperti del meteo. Ad essere precisi, più che esperti, sempre pronti a verificare se la prossima perturbazione possa farci ancora paura. Paura, sì, è la parola giusta...

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

È un dato di fatto che stiamo diventando tutti esperti del meteo. Ad essere precisi, più che esperti, sempre pronti a verificare se la prossima perturbazione possa farci ancora paura. Paura, sì, è la parola giusta. Il mese di luglio ci ha regalato otto perturbazioni, una più devastante dell’altra. Se la grandine ha rotto perfino i vetri della carlinga di un aereo di Emirates, obbligandolo a rientrare alla base, non c’è molto da stare allegri. In Italia per fortuna non abbiamo avuto la conta dei morti che c’è stata in Belgio e in Germania, ma i danni alle case e alle coltivazioni sono una ferita che non si rimargina col cerotto. I temporali, lo sappiamo bene, hanno sempre creato timore. Ricordo quando da bambino la mamma bruciava i rami benedetti di olivo all’avvicinarsi delle nuvole nere gonfie di acqua e di ghiaccio. A far paura era soprattutto quando i fenomeni irrompevano dal lago di Garda, dove il cielo aveva bevuto i vapori delle acque, venuti a contatto con le correnti fredde in arrivo dall’Atlantico.
Si aveva paura, ma più che altro perché il rischio era che qualche grandinata si portasse via le poche cose su cui si basava l’economia familiare, da cui si ricavavano i mezzi di sussistenza. A rimetterci era soprattutto il campetto di grano per la farina, quello di mais per la polenta e la frutta dell’autunno da custodire nei granai, trasformati in cambuse per attraversare i lunghi inverni.
Poi, quasi d’improvviso, ma non da improvvisazione, arrivò il boom economico e con esso la prima percezione del benessere. Come al risveglio dopo un brutto sogno, grazie alla tecnica e all’ingegno umano, si ebbe l’impressione che l’uomo avesse trovato le chiavi per domare anche la natura.
La scienza aveva finalmente consegnato all’uomo le chiavi del vincitore, seppellendo i riti del passato, compresi quelli religiosi, come fenomeni di oscurantismo.
Sparirono le Rogazioni con cui si invocava la protezione del Cielo sopra i raccolti o per implorare la pioggia e si cominciò a guardare con supponenza come tradizioni superstiziose le benedizioni degli animali o altre pratiche propiziatorie. Agli effetti della grandine si rispondeva ora con le polizze di assicurazione, alla mancanza di pioggia suppliva l’irrigazione meccanica, alla minaccia di nuvole grandinigene si teneva testa con il loro bombardamento. Era la vittoria della scienza sulla natura. Almeno così si pensava. Ma non era esattamente così. La rivoluzione che ne conseguì non fu soltanto quella meteorologica, con l’uomo che si improvvisò stregone capace di fare e disfare a proprio piacimento. A scomparire fu l’idea di natura come sorgente di principi oggettivi e doveri morali su cui coniugare l’esistenza. Le conseguenze le vediamo ogni giorno nel campo della bioetica, oltre che in quello sociale a cominciare dalla famiglia. Ai principi di natura, considerati quasi un quinto vangelo, è subentrata la cultura liberal-radicale, quella della autonomia dei soggetti dentro una società senza valori oggettivi, che è come avere un bicchiere vuoto offerto a uno che muore di sete.
A risvegliarci da queste pericolose illusioni, qualche tempo fa ci ha pensato papa Francesco, con l’enciclica Laudato si’, cercando di convincere gli uomini ad amare la natura e sul fatto che con essa non si scherza. Soprattutto che essa, come nelle vendette, consuma a freddo le sue rivincite. Ne abbiamo avuto una riprova anche dalle recenti alluvioni in Belgio, Olanda e Germania.
È dal rispetto della natura che dipende il nostro futuro. Non solo al sicuro dai fenomeni atmosferici, ma prima ancora da tutto quello che potrebbe diventare condanna causata dalla nostra stoltezza.

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