Il Fatto di Bruno Fasani
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La resilienza di Dio mai rassegnato davanti alla nostra stoltezza

Cinque, sei anni fa, fui chiamato a L’Aquila per parlare delle prospettive di ripresa dopo l’esperienza terribile del terremoto. Con me anche un sociologo, il quale tenne un’acuta dissertazione, parlando di resilienza

Parole chiave: Resilienza (2), Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Cinque, sei anni fa, fui chiamato a L’Aquila per parlare delle prospettive di ripresa dopo l’esperienza terribile del terremoto. Con me anche un sociologo, il quale tenne un’acuta dissertazione, parlando di resilienza. Il termine, dal latino resilire, ossia saltare indietro, benché fosse stato introdotto nel Settecento, era da poco entrato nel lessico comune. Ricordo che non mi era del tutto chiara la sottile distinzione tra resistenza e resilienza. Sapevo solo che si trattava di un principio della fisica, ossia la capacità di un materiale di resistere agli urti come fa un muro di gomma, per poi tornare, passato il momento di crisi, alle condizioni originali. Se il termine era conosciuto in ambito scientifico, ora, per la prima volta, veniva applicato all’ambito psicologico. Resiliente è chi davanti ai colpi che la vita ci regala e che sembrano devastarci, pur assorbendo l’urto, riesce a reagire ripristinando l’integrità originaria.
Pensavo a tutto questo mentre la cronaca ci consegna quotidianamente scampoli di tristezza. Nel mondo i morti per Covid-19 sono ormai oltre due milioni e mezzo. La poca disponibilità di vaccini amplifica e rilancia sul futuro la paura. Mentre scrivo arriva notizia che un quarantenne ricoverato in ospedale perché contagiato, scappa e va a casa a spararsi un colpo di pistola. Ci confermano che i casi di depressione acuta e di suicidio stanno rapidamente salendo. Il disagio dei bambini e dei ragazzi, costretti all’insegnamento a distanza, è rilevabile non soltanto a livello didattico, ma prima ancora nella sfera della socializzazione. Già, perché a scuola non si va soltanto per imparare le materie, ma soprattutto a vivere. A chiudere la geremiade andrebbe aggiunto tutto il disagio economico, ma qui la lista si farebbe lunga. Pensieri ingombranti tra i quali uno si chiede quale potrebbe essere la scintilla per dare il via a una diffusa nuova resilienza. Il nostro innato spirito di conservazione? La fiducia nella politica? Un’accresciuta solidarietà nazionale? I ristori economici per compensare le perdite?
E se non fosse una rinnovata fiducia in Colui che guida la storia?
A ben pensarci la prima resilienza, prima della nostra, è proprio quella di Dio, il quale, guardando alla storia, non si è mai rassegnato davanti ai rifiuti e alle sconfitte dei suoi figli. Guardo a generazioni senza anagrafe (giusto perché non si pensi sempre ai giovani colpevolizzandoli) convinte che davanti a Dio valga la logica del chissenefrega. Generazioni post-mortali, dove il piacere e l’eterna giovinezza dovrebbero bastare a dare senso alla vita. Un sentire diffuso, quasi un aroma che si respira e che fa sentire una irrazionale piacevolezza. Convinti di star bene ma di fatto dovendo ammettere che stiamo piuttosto male. Ed è davanti ai “terremoti” dell’uomo che si sprigiona la resilienza di Dio, incapace di rassegnarsi a vederci morire in vita. La fedeltà del Dio biblico che si improvvisa cardiochirurgo pur di non vederci soccombere sotto le macerie: “toglierò da voi il cuore di pietra e metterò dentro di voi un cuore di carne”.
La liturgia torna a proporci la Quaresima come tempo di Grazia e di penitenza, ma dovrebbero essere la cultura e la società nel loro complesso ad avvertire il bisogno di tornare a darsi un’anima. Rimangono sempre vere le parole della Torah, la legge ebraica: “Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”. Nella stoltezza si può anche scegliere di morire, ma senza mai perdere di vista che Lui, pur di non perderci è stato disposto a morire nella solitudine del nostro abbandono. Qui sta tutta la sua resilienza.

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