Il Fatto di Bruno Fasani
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Il volo dei sogni spenti di un piccolo africano

Ani Guibahi Laurent Barthélémy. Per comodità lo chiameremo d’ora in avanti semplicemente Ani. Quando all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi lo hanno trovato morto di freddo dentro il carrello dell’aereo...

Parole chiave: Il fatto (415), Bruno Fasani (323), Ani Guibahi Laurent Barthélémy (1)

Ani Guibahi Laurent Barthélémy. Per comodità lo chiameremo d’ora in avanti semplicemente Ani. Quando all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi lo hanno trovato morto di freddo dentro il carrello dell’aereo, era così rattrappito da sembrare ancora più piccolo dei quattordici anni attestati dai genitori, convocati per riconoscere il corpo del loro figlio. Perfino la morte sembrava aver avuto compassione, restituendogli l’alone fragile di un bambino, intrecciato di innocenza e di sogni.  
Ani era originario della Costa d’Avorio, un tempo fiorente mercato di zanne, da cui il nome del Paese e terra ricca di miniere, dove in passato accorreva anche tanta gente nostrana in cerca di pane. Poi, come si fa con le scarpe usate, i potenti Paesi europei, quelli delle radici cristiane e della égalité e fraternité, dopo aver munto il mungibile, ad un certo momento decisero di abbandonare quei popoli ai loro destini puntando ad altri mercati considerati più redditizi. E così quelle terre, dotate di ogni ben di Dio, sono finite lentamente in un cono d’ombra, politicamente deboli e spesso mal governate, dove la corruzione finisce spesso per estenuare gli sforzi, senza riuscire ad uccidere i sogni.
Anche quello di Ani era un sogno. E come tutti i sogni, essi vengono concepiti all’alba ma vengono alla luce nella notte. Ed era proprio la notte quando egli ha deciso di dare corpo al suo sogno. Agile come un cerbiatto, ha prima scavalcato il muro dell’aeroporto di Abidjan eludendo ogni controllo poi, miscelando il buio della pelle con quello dell’oscurità, con un balzo ha raggiunto il carrello dell’aereo in partenza per Parigi, aggrappandovi le ingenue speranze di un cacciatore di sogni.
Solo il gelo di pietra che si è impadronito del suo corpo ci impedisce di conoscere quali erano queste speranze, morte con lui. Se le possiamo intuire è solo perché esse continuano ad aleggiare, come un respiro che non muore, dentro le menti di tanti suoi coetanei, decisi a rischiare la vita, attraversando il deserto, consegnandosi a carcerieri senza scrupoli, per finire sopra un gommone, non sempre destinato a raggiungere la terraferma. Perché morire dentro il carrello di un aereo o nella notte fredda del ventre del mare non fa poi una grande differenza.
Penso ai sogni grandi e disperati di un giovane africano. E penso ai ragazzi delle nostre terre ai quali abbiamo rubato i sogni, sostituendoli con i bisogni. Da incassare subito o da prenotare nella peggiore delle ipotesi, sapendo che sarà solo questione di tempo. Ragazzi fortunati ai quali non osiamo più chiedere una fatica. Per non farli soffrire o forse perché non sarebbero capaci di affrontarla. In compenso, proprio perché da sognatori ne abbiamo fatto dei consumatori, ci siamo abituati a vederli annaspare nel liquido amniotico del mal di vivere.
Non è proprio il caso di augurarsi di vederli appesi ad un carrello in cerca di fortuna e di libertà. Ma sarebbe auspicabile vederli incamminati sulle ali dei sogni, per spiccare da soli il volo verso il futuro, che nessun altro può pensare e mettere in piedi al posto loro.

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