Il Fatto di Bruno Fasani
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Il secolo ventunesimo secolo di nomadismo

Mi scriveva nei giorni scorsi un alpino: “L’Ana con i propri Gruppi da sempre si è occupata di intervenire nelle emergenze. Oggi di fronte a quella degli immigrati, in cui è coinvolto il nostro Paese, non si dovrebbero prendere delle iniziative a favore di queste persone anche a costo di diventare impopolari?

Parole chiave: Il Fatto di mons. Bruno Fasani (46)

Mi scriveva nei giorni scorsi un alpino: “L’Ana con i propri Gruppi da sempre si è occupata di intervenire nelle emergenze. Oggi di fronte a quella degli immigrati, in cui è coinvolto il nostro Paese, non si dovrebbero prendere delle iniziative a favore di queste persone anche a costo di diventare impopolari? Gli alpini sono nati per difendere i confini nazionali ma oggi la solidarietà alpina non può avere confini e deve essere dispensata a tutti coloro che lo necessitano”.
Mi rendo conto che sono parole coraggiose, che cadono in un momento in cui nessuno di noi sa come affrontare realmente il problema e soprattutto come gestirlo in prospettiva futura. Quando va bene ci troviamo davanti a soluzioni di tipo burocratico e poi slogan, tanti slogan, di ogni colore ideologico, buttati lì, in pasto alle ansie del cittadino, spesso con l’unico scopo di far bottega.
Su tutto campeggia un vuoto di riflessione politica seria. Era il 2000 quando Huntington, nel suo contestatissimo libro, Lo scontro di civiltà, sosteneva che i movimenti demografici sono il motore della storia. Nel senso che stava partendo una macchina, capace di ribaltare tutti gli scenari mondiali, una macchina che avrebbe richiesto d’essere governata con decisione e lungimiranza. Per arrivare alla meta ci vuole sempre un bravo autista e soprattutto sapere dove si vuole andare. Gli faceva eco, nel 2003, il sociologo francese Attali, il quale affermava che il XXI secolo sarebbe stato il “secolo del nomadismo”. Quindi... Quindi si provvedesse. Quanto si sia provveduto è sotto gli occhi di tutti.
Oggi siamo a parlare di profughi provenienti dalle zone di guerra, soprattutto quelle del vicino Medio Oriente. Ma sono convinto che il fenomeno, che sarà nei tempi brevi inarrestabile, a dispetto di tutti i proclami, non sia legato solo alla fuga da terre di disperazione. L’immigrazione va considerata nel contesto della globalizzazione, della comunicazione mondiale e della mobilità planetaria. Oggi la televisione porta in casa, in ogni parte del mondo, tutto il resto del mondo. E com’è possibile restare indifferenti, da parte di chi non ha niente, a tutto il ben d’Iddio che viene proposto nelle immagini che scorrono sul teleschermo?
La globalizzazione è fenomeno relativamente recente ma inarrestabile. Ed è un fatto che essa favorisce la comunicazione, la finanza e i mercati. Ma mentre crea situazioni di favore per chi vi entra a far parte, contemporaneamente è fattore di spaccatura tra beneficiari e vittime. Nasce così, da parte degli svantaggiati, il bisogno di mettersi in cammino verso destinazioni avvertite come migliori, percepite come la strada per ottenere la felicità.
E così la globalizzazione premia chi se ne va, ma esclude e mette da parte chi non emigra. Chi resta rimane escluso dai benefici dello scenario globale. Condannato a restare locale, vittima di speranze frustrate. Gli immigrati sono dunque persone che non accettano l’emarginazione, la sconfitta e tentano una via d’uscita, quella di diventare anche loro globali, vincenti, cittadini attivi e protagonisti del mondo globalizzato.
Può piacere o meno questa analisi, ma è la fotografia di ciò che ci sta davanti. Giusto per ricordarci che c’è sicuramente l’urgenza di dare risposta al problema dei profughi. Ma più ancora è lo scenario della globalizzazione che domanda d’essere governato da una politica intelligente, non ripiegata sull’ombelico dei propri particolarismi. Quelli di un’Europa assai sollecita nello spingere sui temi etici a favore del nulla morale, ma incapace di governare i fenomeni internazionali. Un’Europa dei muri, dei populismi demagogici, dei nazionalismi egoistici. Un’Europa che guarda alle terre dei poveri e alle loro ricchezze, salvo ripiegare con la coda tra le gambe non appena si accende un cerino.

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