Il Fatto di Bruno Fasani
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Il bisogno di legalità parte dalle piccole cose

Quando nel Paese si parla di legalità, subito il pensiero corre dentro ai palazzi del potere, dove le tangenti sembrano l’argenteria delle tavole importanti, cioè irrinunciabile. Oppure dentro terre maledette dall’uomo, diventate sorgenti tossiche, con il mortale deposito di rifiuti inquinanti, seminati lì dall’ingordigia umana, per cui il denaro viene prima della vita delle persone.

Parole chiave: Il Fatto (417), Bruno Fasani (325)

Quando nel Paese si parla di legalità, subito il pensiero corre dentro ai palazzi del potere, dove le tangenti sembrano l’argenteria delle tavole importanti, cioè irrinunciabile. Oppure dentro terre maledette dall’uomo, diventate sorgenti tossiche, con il mortale deposito di rifiuti inquinanti, seminati lì dall’ingordigia umana, per cui il denaro viene prima della vita delle persone.
Eppure a questa clamorosa illegalità se ne accompagna un’altra, non meno devastante per gli effetti che lascia. Non è neppure clamorosa. Piuttosto corre defilata, quasi come un virus influenzale, di cui percepisci gli esiti ma non la presenza. Penso a tanto lavoro in nero o alle mancate fatturazioni. Piccoli lavori, che ci ispirano quasi tenerezza per l’umiltà dei loro esecutori, dimenticando che in realtà questi signori appartengono a quella categoria che munge il Paese, senza dare nulla in cambio. Oppure penso a scanzonati studenti, che imbrattano i sedili dei pullman, che usano per andare a scuola, mettendo nei fianchi dei cittadini cifre milionarie di riparazione. Ciò vale per i muri di case, monumenti e tutto ciò che si presti a fare da lavagna.
Penso a chi passa per le strade, buttando sacchi di immondizia, a chi cammina gettando ovunque gomme da masticare, scontrini di cassa e mozziconi di sigaretta. Illegalità strisciante, quasi impercettibile, se non fosse per il conto che poi presenta alla comunità.
Piccole cose, direte. Forse è vero. Ma è sulle piccole cose che si costruisce una coscienza.
Giro nella mia città, Verona, scelta a campione per sperimentare l’uso dei monopattini e temo che un ulteriore gradino ci porterà ancora più in giù. Faccio qualche chilometro in auto accompagnato da tre ragazzi che mi affiancano con questo nuovo mezzo di trasporto e di divertimento. Li sorpasso, poi mi devo fermare al semaforo. Loro mi raggiungono, ma al semaforo rosso si guardano intorno e via come le frecce. Li raggiungo di nuovo e ad altri due semafori mi raggiungono e vanno in replay. Giro per la città e trovo monopattini parcheggiati ovunque. Sul ciglio stradale, sul marciapiede, messi dritti e di traverso. Eppure la legge parla chiaro. Obbligo di procedere sulle piste ciclabili e solo nelle strade con 30 km orari massimi. Parcheggio consentito solo sugli stalli per le moto ed obbligo di patente per motorini, per chi ha meno di diciotto anni. Tra un po’ mi auguro che parta qualche multa. Ma so già che si alzerà il coro degli scandalizzati. A cominciare dal partito dei genitori e a seguire dagli illuminati opinionisti, per cui l’illegalità maggiore finisce per legittimare quella minore.
La coscienza di un Paese è un lievito silenzioso ed è soprattutto la pasta del domani che ha bisogno del lievito delle nuove generazioni. Aiutandole a crescere, insegnando loro che il pronome “noi” deve venire prima del singolare.
Sono invidiabili i ragazzi nella loro primavera biologica, fatta di energie, incoscienza, prestanza fisica e trasgressione. Ma senza dimenticare che la giovinezza è una malattia da cui si guarisce presto, quando sul campo dovrà rimanere soltanto la forza di coscienze mature e responsabili.

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