Il Fatto di Bruno Fasani
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I virus che minano la salute ma soprattutto le relazioni

Non sarà un caso se l’ispirato biblista decise un tempo di scegliere il serpente come potente metafora del male che attenta alla creatura umana. Astuzia e pericolosità che oggi trovano conferma, fuori metafora, nelle drammatiche notizie che ci arrivano dalla Cina...

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Non sarà un caso se l’ispirato biblista decise un tempo di scegliere il serpente come potente metafora del male che attenta alla creatura umana. Astuzia e pericolosità che oggi trovano conferma, fuori metafora, nelle drammatiche notizie che ci arrivano dalla Cina. Sarebbe stato proprio un incolpevole serpente, almeno così ci dicono, venduto al mercato di Wuhan, a mettere in circolo il Coronavirus, che sta mietendo decine di vittime, con il rischio di trasformarsi in pandemia a livello planetario.
Perché poi in Cina si vendano serpenti al mercato sarebbe tutto da discutere. Ero da quelle parti non molto tempo fa quando manifestavo a chi ci faceva da guida un certo mio disappunto nel vedere banchetti colmi di insetti fritti. Ragni, scorpioni di varia taglia, millepiedi, bachi da seta, grilli... Rampognandomi amabilmente per il nostro vezzo di nutrirci in Occidente di rane e lumache, si premurò subito di rassicurarmi che lì non si vendevano i “Tre canti”. Ossia topolini neonati, così chiamati perché piangono tre volte. Quando vengono catturati, quando vengono immersi vivi nell’aceto, prima di passare tra i denti con il terzo “canto”.
Se l’arte culinaria cinese ci intimorisce, l’epidemia da Coronavirus è un pugno in faccia alla fragilità dell’ecosistema ambientale e umano. A dispetto di una scienza che a volte ci regala illusioni di onnipotenza, la realtà racconta invece i rischi dei quali troppo spesso finiamo per dimenticarci. Quando la storia ci racconta di civiltà scomparse, di epidemie di peste che hanno decimato popoli e città, la tentazione inconscia è quella di rimuovere quegli episodi dentro gli spazi di un Medioevo rozzo e igienicamente fragile. Quasi che il progresso da solo bastasse a garantire certezze sanitarie e immunità protettive. Poi basta una Sars, una mucca pazza o un’aviaria qualsiasi per riportarci con i piedi a terra e farci comprendere quanto siamo fragili a dispetto dei nostri poteri scientifici.  L’epidemia cinese non esaurisce comunque i suoi effetti devastanti sul piano della salute. È tutto un sistema sociale che entra in crisi. La cronaca ci parla di intere città che vivono di fatto in una sorta di coprifuoco. Strade vuote, rese spettrali dalla paura d’essere contaminati, facendo rivivere la triste epopea degli untori al tempo dei lanzichenecchi. E a ricaduta la paralisi di ogni attività commerciale, turistica, culturale... Blocco delle grandi reti ferroviarie ed aeree. Insomma, una sorta di paralisi, che si dirama poi a livello planetario, facendo sentire le persone vulnerabili e sotto attacco, prive di ogni possibilità di difendersi. È come se crescesse la globalizzazione del rischio e della paura. Ma anche del sospetto verso i nuovi untori, quelli che non circolano dietro le carrette dei morti, ma che viaggiano su moderni Boeing in giro per il mondo, che scambiano merci verso le quali diventiamo ogni giorno più diffidenti, che ci fanno ripiegare nell’idea che chiuderci agli altri sia l’unico modo per mettersi al sicuro. Sapendo che si può morire nel fisico, ma prima ancora nella nostra umanità.

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