Il Fatto di Bruno Fasani
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Guerra all’handicap cambiano solo i modi

Quando queste righe entreranno nelle vostre case, le luci del Natale, con le loro danze piene di movimento e colore, funzioneranno già a pieno regime, regalando emozioni e sentimenti di bene. Sarà però importante guardare alla mangiatoia per ritrovare le nostre radici e il valore della vita nell’orizzonte cristiano...

Parole chiave: Il Fatto di mons. Bruno Fasani (46)

Quando queste righe entreranno nelle vostre case, le luci del Natale, con le loro danze piene di movimento e colore, funzioneranno già a pieno regime, regalando emozioni e sentimenti di bene. Sarà però importante guardare alla mangiatoia per ritrovare le nostre radici e il valore della vita nell’orizzonte cristiano. Quello che non abbiamo trovato in due notizie che Avvenire, peraltro in uscita solitaria, ci ha consegnato nei giorni scorsi.
La prima viene da Mosul, terra dello spietato califfo e dei suoi sgherri. Lì, in quelle terre, dove le lacrime sono copiose come la pioggia, nei giorni scorsi, un giudice ha dichiarato jihad, guerra santa (e la chiamano anche santa ’sti maledetti), o se volete una fatwa, che autorizza a “uccidere i neonati con sindrome di Down e altre malformazioni congenite, oppure fisicamente disabili”. Disposizione che ha trovato pronta applicazione. Almeno 38 i bambini della zona, di età compresa tra uno e sei mesi, strangolati o soppressi con iniezione letale, perché inidonei a vivere. Altre fonti confermano che la prassi si è largamente consolidata in tutta l’area in balìa dei criminali del’Isis. Non servono altri dettagli per far crescere l’orrore e l’indignazione. Mentre il mondo civile si chiede quale Dio possa approvare queste logiche, la barbarie nazista sembra irrompere di nuovo sullo scenario del tempo, grazie a spietati carnefici in libera uscita.
Eppure sarebbe ingiusto far passare questa notizia, senza accostarla a una di casa nostra. Nei giorni scorsi la Cassazione ha condannato un medico ginecologo a risarcire una coppia cui era nata una bambina Down. Questo era accaduto a Mantova dieci anni fa. La coppia, che desiderava un figlio sano, si trovò invece nella culla una piccola con questa sindrome. Era tale l’amore di cui erano dotati, da decidere di abbandonarla subito senza neppure riconoscerla. Insomma niente più di un pezzo rotto della macchina familiare, da buttare prima ancora di verificare se poteva funzionare. Nessuno parlò di fatwa in quella circostanza, ma solo perché l’ipocrisia nostrana ha un’arte insuperabile nell’imbroglio delle parole. A forza di parlare di diritti, diritto di qua e diritto di là, ci siamo illusi d’essere immersi nelle più alte sfere della civiltà. Salvo scoprire che anche dalle nostre parti qualche volta un figlio Down non merita d’essere figlio e soprattutto una persona degna d’amore e di rispetto come tutti.
Una logica alla quale sembra accodarsi indirettamente anche la sentenza della Cassazione. La quale ha condannato il medico a risarcire la coppia non perché abbia fatto qualcosa di sbagliato, più semplicemente perché non ha consigliato di fare tutti gli esami che potessero avvisare dell’imperfezione per consentire l’aborto.
Sentenza clamorosa, non solo perché avvalora la cultura del diritto al figlio perfetto, da buttare in caso contrario, ma perché apre ad una rivoluzione del rapporto medico-paziente.
Finito il rapporto paternalistico di vecchio stampo, in cui il medico si prendeva a carico e a cuore il proprio assistito in una relazione di reciproca fiducia, oggi stiamo passando alla prestazione scientifica fine a se stessa, nella quale solo il consenso informato, con cui si prospettano al paziente tutti i danni possibili, potrà metterlo al sicuro da eventuali conseguenze penali.
Ma per fare questo dovrà prescrivere tutti gli esami possibili, radiografie, risonanze, tac, analisi varie...? Poi ci dirà la Sanità con la Cassazione se questa è la strada da percorrere, per la salute e per i bilanci. O basterà che faccia firmare un consenso in cui si dice che si può nascere anche imperfetti ed anche morire?

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