Il Fatto di Bruno Fasani
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Enrico Letta va a Parigi basta politica italiana

Che Enrico Letta fosse lontano spazi siderali da Matteo Renzi, dalla sua politica e dal suo modo di esercitarla, lo si era capito per interposta persona. Nei giorni scorsi Romano Prodi, che del Letta junior è da sempre estimatore e mentore, aveva rilasciato un’intervista in cui sottolineava la distanza di stile tra i due. Paragonando l’attuale presidente del Consiglio ad un trapano, trovava modo di definire il suo predecessore un cacciavite...

Parole chiave: Il Fatto di mons. Bruno Fasani (46)

Che Enrico Letta fosse lontano spazi siderali da Matteo Renzi, dalla sua politica e dal suo modo di esercitarla, lo si era capito per interposta persona. Nei giorni scorsi Romano Prodi, che del Letta junior è da sempre estimatore e mentore, aveva rilasciato un’intervista in cui sottolineava la distanza di stile tra i due. Paragonando l’attuale presidente del Consiglio ad un trapano, trovava modo di definire il suo predecessore un cacciavite. Magari gli attrezzi scelti per il paragone non sono il massimo dell’eleganza, ma la metafora era comunque eloquente e stridente.
Si metteva a confronto la delicatezza e la riservatezza dell’uno, con l’invadenza e il protagonismo dell’altro, il lavoratore di cesello con l’addetto al martello pneumatico.  Una sconfessione bell’e buona per l’operato del Renzi, a tutto vantaggio, o meglio, a tutto rimpianto, del già presidente Enrico Letta. Il quale, in questi giorni, ha formalizzato la sua decisione di andarsene dal Parlamento italiano. Dopo quattro legislature e undici mesi da Presidente del Consiglio, quelli tra l’aprile 2013 e il febbraio 2014, andrà a Parigi a dirigere la Scuola di Affari Internazionali, dentro la prestigiosa università Science Po. Un sancta sanctorum, dove insegnano accademici, diplomatici e politici e da dove escono i quadri dirigenziali di gran parte degli Stati del mondo. Si pensi che su 14mila studenti solo un quarto è francese. Per il resto si tratta di élite internazionali, provenienti dai quattro punti cardinali della terra.
Letta lo ha annunciato con lo stile felpato da buon figlio di diplomatico, avvezzo dalla nascita ad usare l’eleganza della forma, unita alla perfetta conoscenza delle lingue straniere. E lo ha fatto senza recriminare, senza schiamazzi di rivendicazione, come spesso ci è dato a vedere in situazioni analoghe. I colpi di cannone dei Fitto, dei Verdini, dei Salvini e compagnia degli strilloni, giusto per capirci. Toni di una politica che sembra appartenere al mercato delle vacche più che all’idea di servizio quale dovrebbe essere l’arte di governare il Paese.
Il fatto è che Enrico Letta è brava persona, che conosce il garbo delle buone maniere e probabilmente ha della politica un’idea d’altri tempi e di altre generazioni. In questo senso egli è probabilmente l’ultimo superstite di quella democristianicità delle origini, che si alimentava di stile e di ideali.
Ma è proprio questa eleganza di pensiero e di stile che rischia di far apparire Letta junior un vaso di coccio tra vasi di ferro. Abituato alla politica mascellare e muscolare il cittadino s’è progressivamente convinto che il valore di un politico si misuri sulla sua capacità di impattare emotivamente sull’elettore. Una politica costruita sui sondaggi, da verificare giorno per giorno, come si fa con l’asticella nelle piene dei fiumi.
Non più un’adesione del cittadino ad un programma credibile e fattibile, ma soltanto colpi allo stomaco per intercettare il disagio della gente, la quale, quando è allo stremo, è disposta a nutrirsi anche di illusioni, pur di tirarsi fuori dalle sacche della fatica. E allora via alla provocazione, alle promesse capaci di strabiliare, ma impossibili da mantenere, giusto per portare a casa un pacchetto di voti, che garantiscano la sedia, se non proprio il bene del Paese.
Letta ha detto che continuerà a fare politica. Ma sarà probabilmente la politica delle idee e dello stile. Quella delle posizioni di rendita, in chiave di potere e di mazzette, non è da lui.  Tanto più che basteranno pochi anni per passare all’incasso di un vitalizio rassicurante, maturato in quattro legislature dentro al Parlamento italiano.

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