Il Fatto di Bruno Fasani
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Da un migrante di colore una bella lezione di civiltà

Linea Verde della metropolitana di Milano nei giorni scorsi. Come sempre, risulta praticamente impossibile trovare un posto a sedere. Ad occuparne la maggior parte al mattino sono soprattutto giovani studenti. Si vede dagli occhi che hanno litigato da poco con la sveglia o con una madre petulante che li ha incalzati: “Dai alzati, che è tardi!”. Viaggiano assorti sulle tastiere dei loro cellulari, intenti a compulsare nevroticamente come operai alla catena di montaggio.

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Linea Verde della metropolitana di Milano nei giorni scorsi. Come sempre, risulta praticamente impossibile trovare un posto a sedere. Ad occuparne la maggior parte al mattino sono soprattutto giovani studenti. Si vede dagli occhi che hanno litigato da poco con la sveglia o con una madre petulante che li ha incalzati: “Dai alzati, che è tardi!”. Viaggiano assorti sulle tastiere dei loro cellulari, intenti a compulsare nevroticamente come operai alla catena di montaggio. Figli del loro tempo, che li condanna ad essere anagraficamente adolescenti, ma psicologicamente come dei vecchi che hanno rinunciato a dialogare con il mondo.
In genere è così, ma stavolta non è così. Gli studenti sono un gruppetto di maturandi. Parlano di come sono andati gli scritti, delle preoccupazioni per gli esami. Della commissione e del professore che hanno già individuato essere l’anello debole o il più carogna. Ricordano il nome dei compagni che inizieranno gli orali per primi e di quelli che avranno l’ultimo turno, restando sui libri a boccheggiare al caldo più degli altri.
Osservo questi ragazzi e li ascolto, mentre rivivo emozioni comuni agli studenti di tutti i tempi. Tra loro noto un ragazzo di colore, seduto tra due ragazzi italiani. Ha una faccia pulita, da bravo ragazzo. In un attimo alza lo sguardo e mi nota. Nemmeno il tempo di un pensiero riflesso che già è in piedi: «Prego, si accomodi», mi dice, accompagnando il gesto con un sorriso spontaneo e cordiale.
Rimango basito. Non tanto perché qualcuno ha proclamato pubblicamente la mia anagrafe, ma perché non avevo mai visto prima qualcosa di analogo. Nemmeno da parte di quelle mamme che viaggiano col bambino piccolo e si guardano bene dal tenere il marmocchio sulle ginocchia, preferendo trastullarlo sul sedile accanto a loro.
Ringrazio il giovane studente e gli chiedo se sia nato in Italia, considerato anche il suo ottimo italiano. Mi risponde che arriva dall’Etiopia e che è qui da quattro anni. Mi viene spontaneo elogiarlo e dirgli che ci voleva un ragazzo straniero e di colore per farmi vivere un gesto di civiltà, cui non ero più abituato. «È normale fare così con le persone più grandi di noi. Al mio Paese ci hanno insegnato a fare così». Noto la finezza di quel “più grandi”. Non sei censito né come vecchio, né come anziano, giusto per dire che il rispetto non si dà o si toglie in base alle categorie sociali di appartenenza, ma è dovuto al fatto che sei nato prima. Un prima, dove il vissuto ha sedimentato esperienza, fatiche, responsabilità di cui gode chi viene dopo. Macino questi pensieri quando anche i due compagni di viaggio del giovane etiope si alzano in piedi cedendo il posto a persone più grandi. Sono immerso in me stesso e penso alla frase detta poco prima: al mio Paese ci hanno insegnato così.
Tra le mani ho un giornale, i cui titoli parlano di migranti, di risse tra partiti, di discorsi al vetriolo, di Fornero e Jobs Act. E non trovo traccia di valori e riferimenti ad una identità morale condivisa da cui partire per rimettere in piedi l’Italia. Quelli devo impararli da un etiope, migrante portatore di civiltà.

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