Editoriale
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Non vengono qui per farsi una scampagnata!

I romani lo chiamavano Mare nostrum, ma forse d’ora in poi sarebbe il caso di chiamarlo Mare mortuum visto il numero di persone che nelle acque del Mediterraneo ci hanno lasciato la pelle andando in cerca di un futuro migliore. Un’ecatombe di vite umane che speriamo trovi fine, anche grazie ad un’azione finalmente decisa e univoca dell’Unione Europea e della comunità internazionale sinora impotenti nel contrastare un indegno traffico di esseri umani che ha riproposto la barbarie di una schiavitù che pensavamo relegata ai libri di storia.

I romani lo chiamavano Mare nostrum, ma forse d’ora in poi sarebbe il caso di chiamarlo Mare mortuum visto il numero di persone che nelle acque del Mediterraneo ci hanno lasciato la pelle andando in cerca di un futuro migliore. Un’ecatombe di vite umane che speriamo trovi fine, anche grazie ad un’azione finalmente decisa e univoca dell’Unione Europea e della comunità internazionale sinora impotenti nel contrastare un indegno traffico di esseri umani che ha riproposto la barbarie di una schiavitù che pensavamo relegata ai libri di storia. Purtroppo invece l’uomo è sempre pronto a tirare fuori il peggio di sé e dinanzi al dio denaro che non conosce morale, rispetto, religione e nazionalità, insieme alla speranza di farla franca, in cambio di 1.500-2.000 dollari a testa, intruppa centinaia di persone – connazionali compresi – su barconi della morte da lasciare alla deriva, in attesa che qualche natante intervenga. Un viaggio della speranza, che sempre più spesso diventa una drammatica sfida alla morte, può fruttare anche un milione di dollari, da ripartire tra scafisti e organizzazioni criminali di diverse nazionalità.
Per fermare le morti in mare occorre bloccare i trafficanti di uomini. Operazione non certo facile in un paese, com’è oggi la Libia, di fatto in una situazione di anarchia. La questione più urgente per le istituzioni internazionali sarà dunque quella di ricomporre il puzzle per poi prendere accordi (che di certo non saranno a costo zero) con un governo legittimo e riconosciuto. Altrimenti sarà impossibile anche solo pensare di fermare barconi carichi di vite umane che sono soliti partire col favore delle tenebre. Senza dimenticare che la costa del Paese africano misura 1.770 chilometri.
Rimane il problema della gente che ha fame o scappa dalle guerre. Bisognerebbe spiegarlo a quegli utenti dei social network col cuore di pietra e il cervello di gallina e a quanti come loro hanno esultato alla notizia della tragedia di domenica scorsa! O forse pensano davvero che ci sia un milione di persone disposte a lasciare la propria casa e il proprio Paese e ad imbarcarsi in modo insicuro, pagando alcune migliaia di dollari, semplicemente per venire in gita da noi piuttosto che in Grecia e per divertirsi con la mancia di 2,50 euro al giorno? Provino a informarsi, loro grandi navigatori sul web, su come se la passano in Siria, piuttosto che in Mali, in Eritrea, in Nigeria o nel Sud Sudan e poi pensino a cosa farebbero al posto di quelle persone. Perché prima di parlare o di digitare un pensiero, bisognerebbe informarsi bene e capire le ragioni dell’altro. Altrimenti la demagogia, la paura, il rifiuto del diverso avranno sempre la meglio. Senza dimenticare che anche noi operatori dei mass media (e tanto più i grandi network) dovremmo fare un serio mea culpa per aver trascurato di dar conto delle situazioni drammatiche in atto a poche centinaia di chilometri dall’Europa, nel silenzio più assordante. Perché l’Africa è vicina ma ancora molto lontana dal punto di vista dell’informazione.

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