Editoriale
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Mi chiamo Diego, non Maradona

Grande risalto mediatico, come è giusto che sia, per la partita della pace promosssa da papa Francesco. Diffondere una cultura di pace nei giovani mediante l’opera educativa dello sport, rappresenta l’ennesima modalità con cui il Papa lancia i suoi messaggi al mondo.

Parole chiave: Partita della Pace (1), Calcio (136), Papa Francesco (121), Stefano Origano (141), Editoriale (402)

Grande risalto mediatico, come è giusto che sia, per la partita della pace promosssa da papa Francesco. Diffondere una cultura di pace nei giovani mediante l’opera educativa dello sport, rappresenta l’ennesima modalità con cui il Papa lancia i suoi messaggi al mondo. Se poi si muove addirittura un monumento del calcio moderno come el Pibe de oro, Diego Armando Maradona, l’eco mediatica è garantita; anche perché lui non perde mai l’occasione per uscire con qualche dichiarazione pepata verso qualcuno se c’è una telecamera accesa nei dintorni.
Spero che papa Francesco non se ne abbia a male se in tema di educazione e pace mi piace di più quello che si è verificato ad Ancona, in un campo dove va in scena il cosiddetto (a torto) “calcio minore”. Qui a calciare la palla era un altro Diego, di 13 anni, che ha sbagliato volutamente un rigore.
Sembra una storiella da libro Cuore, dove trionfano sempre i buoi sentimenti, ma la vera lezione sta nel messaggio recapitato al piccolo Diego dall’allenatore della squadra avversaria, tal Lorenzo Sulpizi: «Per la prima volta ho visto con i miei occhi un ragazzino che di idea sua ha sbagliato volontariamente un rigore perché l’arbitro aveva sbagliato a fischiarlo. Sono nel mondo del calcio da 19 anni, e non mi era mai capitato un episodio del genere. Con questo messaggio voglio fare i complimenti a voi genitori, perché se quel ragazzino, così come gli altri che lo hanno applaudito subito, si sono comportati cosi, è perché hanno ricevuto un educazione eccellente. È un gesto che non dimenticherò, per questo voglio ringraziarvi perché esperienze cosi fanno crescere tutti, me in primis».
Conosco un amico che fa proprio quel mestiere, allena una squadra di ragazzi che hanno la fortuna di indossare la maglietta con i colori gloriosi della nostra città. Più volte mi ha confidato che considera più importante farli giocare – perché il calcio è un gioco, fino a prova contraria – pittosto che ingabbiarli in schemi, tattiche, trucchi e furbizie. Questo gli ha procurato qualche dissapore con dei genitori convinti che il proprio figlio sia un altro Maradona e vada “gestito” meglio. Ma per fortuna ce ne sono tanti  come quelli di Diego Malatesta. Un fuoriclasse nella vita già oggi. Auguri, una gloriosa carriera nel giuoco più bello del mondo.

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