Editoriale
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Lo spazio vuoto tra me e gli altri

«Se incontro un amico che dice di essere negativo al Coronavirus, mi posso fidare? O è meglio di no? Lo ascolto sereno o con un malcelato sospetto? Che sia un asintomatico? E lui, si fiderà di me?».

Parole chiave: Editoriale (409), Renzo Beghini (62), Coronavirus (96)

«Se incontro un amico che dice di essere negativo al Coronavirus, mi posso fidare? O è meglio di no? Lo ascolto sereno o con un malcelato sospetto? Che sia un asintomatico? E lui, si fiderà di me?».
La pandemia ha scosso i legami sociali, generando paura e angoscia. Lo si vede soprattutto nei nostri anziani. Ma non solo. I mezzi di comunicazione, per cominciare: molti giornalisti e telecronisti hanno – senza ritegno – diffuso il virus della paura. Per non contare le esternazioni dei nostri amministratori. Tra espressioni paternaliste e da sergenti dei marine, ne abbiamo sentite di tutti i colori. «Non costringetemi a fare... il cattivo». «Se non mi ascoltate sarò costretto a usare il pugno di ferro». Espressioni da madre superiora che pensavamo di aver lasciato alla scuola materna.
Certo, la condizione di vulnerabilità in cui ci troviamo rischia di travolgere proprio il senso di fiducia e il legame su cui poggiano non solo la vita e il bene comune ma anche le pratiche dell’agire libero e responsabile. Quando sentivamo parlare di quanto accadeva in Cina abbiamo subito pensato si trattasse di una cosa lontana, che non ci avrebbe mai interessati o coinvolti. Tutti, io per primo, abbiamo fatto l’esperienza della vulnerabilità della vita. Malattie e incidenti toccano tutti. Ma eravamo abituati a declinare la nostra vulnerabilità nel privato, come se riguardasse gli altri e non noi o, viceversa, noi e non gli altri. Invece, oggi, stiamo imparando che esiste una dimensione comune della vulnerabilità e della fragilità. Sul piano collettivo questa esperienza è piombata come un fulmine che sta travolgendo i legami sociali.
Lo aveva detto bene il sociologo tedesco Ulrich Beck. Alla domanda “quale concetto meglio definisce la nostra epoca”, rispose: il rischio. La prossimità con l’altro è diventata un rischio. La vita personale, affettiva, sociale, lavorativa è tutta un incontro con l’altro... ed ora un rischio. Poiché il contagio ha a che fare con il contatto. Società ad alto contatto fisico come le nostre sono tra le più esposte alla velocità di diffusione del contagio stesso. Ciò non significa che viviamo in un mondo più pericoloso di quello di prima. Ma semplicemente che il rischio è al centro della vita di ognuno di noi, perché oramai lo percepiamo ovunque. Ed è ovunque. Il rischio non è la catastrofe ma con sano realismo dovremo affrontare una cultura dell’incertezza e decidere se rinnovare o meno il patto di fiducia. Conclude Beck: «Dobbiamo accettare l’insicurezza come un elemento della nostra libertà. Il cambiamento nasce da qui».
L’epidemia ha bloccato le tante interazioni, su cui è stata costruita la nostra società. Il Coronavirus ci forza a riconoscere il fatto che i comportamenti di ciascuno hanno riflessi sugli altri. Come conseguenza di questa presa d’atto, c’è un passaggio fondamentale per rigenerare fiducia e speranza: capire che nessuno si salva da solo. Non ci si salva senza una preliminare presunzione di affidabilità.
La domenica di Pasqua il mio parroco ha celebrato Messa. Qualche fedele che gli è particolarmente amico (si fa per dire) ha pensato bene di avvisare la questura denunciando il presunto assembramento pericoloso non autorizzato. All’inizio della Messa sono arrivati i poliziotti. Hanno controllato uno per uno. I partecipanti erano “limitati agli accoliti necessari per l’ufficiatura del rito”. Tutti avevano, oltre ai testi con la distribuzione dei servizi, mascherine e guanti. Il luogo di culto lo permetteva, per cui era rispettata la distanza sociale. Alla fine i poliziotti non solo sono rimasti e hanno partecipato alla Messa di Pasqua ma hanno accettato l’invito del parroco a prendere un caffè in canonica.
Le epidemie, come si legge nei libri di storia, hanno sempre generato paura e angoscia. La preoccupazione è comprensibile e ci vuole anche un po’ di tempo per abituarsi all’idea. Ma ciascuno di noi dovrà decidere come riempire di significato e di linguaggio quello spazio vuoto tra sé e gli altri.

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