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I passi e le impronte di Francesco

La direzione impressa, le impronte che rimangono. La lettura di un pontificato e l’eredità che lascia alla Chiesa...

I passi e le impronte di Francesco

La Chiesa ha radici sia nel passato sia nel futuro, scrive papa Francesco nella sua autobiografia dal titolo molto eloquente: Spera. Il libro della sua vita è il racconto di un cammino di speranza, che lui percepiva in una trama di legami imprescindibili: con la sua famiglia, con la sua gente, con il popolo di Dio tutto. Era per lui anche il cammino “di chi ci ha preceduto e di chi ci seguirà”. In una Chiesa che sta tra memoria e promessa, immersa nel Cristo vivo che rimane con noi fino alla fine del mondo, Francesco ha declinato il suo pontificato tra l’umiltà di chi conosce la forza della Tradizione e un’incrollabile fiducia nel domani. E aggiungeva: “La Chiesa andrà avanti, nella sua storia, io non sono che un passo”.
I passi contano, perché lasciano impronte. Di passi, però, papa Francesco ne ha fatti molti, lasciando a noi la libertà di interpretarli.
Il minimo che si possa dire è che i passi contano – in particolare quelli di un Papa –, perché lasciano impronte sulla terra attraversata. Le possiamo vedere, seguire, trascurare o addirittura cancellare come farebbe un’onda del mare sulla sabbia. E in questi giorni di parole moltiplicate, questa pluralità si è manifestata con chiarezza.
Alcune analisi ci hanno aiutato a riflettere sulla nostra storia ecclesiale, mentre altre sembrano preoccupate solo di valutare se i passi di papa Francesco siano stati in avanti o indietro, a destra o a sinistra. Non è mai con la logica dello schieramento, però, che si comprendono gli eventi.
Quello che ci appare chiaro è che i passi di papa Francesco sono stati diversi nella velocità, nella destinazione e nella compagnia di viaggio. È normale che sia così. Nessun cammino di vita è perfettamente lineare e i paesaggi che si attraversano lungo il cammino possono essere molto differenti tra loro.
I passi di papa Francesco mostrano una direzione e una interconnessione indiscutibili. Anche se qualcuno ha tentato maldestramente di ricondurli a una sensibilità esclusivamente sociologica, erano mossi dal Vangelo.
Come ha mostrato nella sua ultima enciclica Dilexit nos, la sua attenzione alla giustizia economica, politica, sociale ed ecologica proveniva dal cuore stesso del Vangelo, perché era per lui impossibile separare l’esperienza spirituale dalla cura del mondo.
Rimandando alla forza della tenerezza, alla misericordia come forma di giustizia, al coraggio di condividere le paure altrui, alla fraternità universale e alla cura della casa comune, papa Francesco ha cercato di dissolvere la tragica cultura della guerra nella quale nessuno può vincere. Ha combattuto contro l’etica dello scarto che produce solo violenza. Ha denunciato il nostro scriteriato saccheggio della creazione. Su questi temi – pace, ecologia, accoglienza dei migranti – è stato nettissimo, seminando il bene possibile in una terra incerta. «Abbiamo bisogno di speranza – diceva nell’omelia di Pentecoste –, abbiamo bisogno di alzare gli occhi su orizzonti di pace, di fratellanza, di giustizia e di solidarietà. È questa l’unica via della vita, non ce n’è un’altra».
Papa Francesco ha spesso camminato in solitudine. I potenti della terra, pur presenti in gran numero al suo funerale, raramente hanno condiviso il suo percorso. Contrariamente, ha trovato compagni di viaggio inaspettati, incluse numerose persone non credenti che hanno riconosciuto in lui una genuina sollecitudine verso la vulnerabilità umana e un’autentica indignazione di fronte alle ingiustizie del mondo.
Verso le donne e non solo. Il pontificato di Francesco è stato segnato anche da ambivalenze, diverse velocità di movimento, diversi gradi di apertura, diversa sensibilità verso gli squilibri del mondo. Un esempio evidente riguarda le donne, verso le quali ha avuto un atteggiamento di ascolto profondo e di attenzione reale, senza però avviare radicali riforme sul piano istituzionale.
Si è sempre espresso in modo netto e deciso contro ogni forma di violenza sulle donne, ed era profondamente convinto che la fecondità di una comunità dipende anche da ciò che accade alla vita femminile. Per questo egli ha cercato in tutti i modi di dissotterrare i talenti femminili, promuovendo alcune donne.
Era per lui un modo per smaschilizzare la Chiesa, diceva. Molte donne hanno sperato in una giustizia di genere più radicale. Papa Francesco, però, non poteva andare in questa direzione perché tendeva a pensare l’universo ecclesiale femminile come un mondo carismatico, più che istituzionale.
Ricordiamo che per Francesco il tempo era superiore allo spazio: gli interessava iniziare processi e non modificare i contesti dall’alto. Questi processi riguardanti le donne – ma qualcosa di simile potremmo sostenerlo anche per le persone omosessuali – sono ora sospesi. In questa sospensione sta la loro vulnerabilità ma anche la loro verità: il Papa della sinodalità non poteva che camminare con passi orientati alla condivisione.
L’armonia, come si sa, si costruisce passo dopo passo.
La metafora delle scarpe. Le consumate scarpe ortopediche con cui andava in giro, e che ha indossato anche nell’ultimo viaggio, ci parlano ora di un cammino iniziato con un semplice «buonasera» e finito con un «Buona Pasqua» accompagnato dal messaggio all’Urbi et orbi, letto da mons. Diego Ravelli: “L’amore ha vinto l’odio. La luce ha vinto le tenebre. La verità ha vinto la menzogna. Il perdono ha vinto la vendetta”.
Un annuncio di gioia rivolto a sorelle e fratelli tutti, ma in particolare a coloro che si trovano nel dolore e nell’angoscia: “Il vostro grido silenzioso è stato ascoltato, le vostre lacrime sono state raccolte, nemmeno una è andata perduta!”.
Le scarpe nere di papa Francesco, scelte al posto di quelle rosse tradizionali, hanno lasciato impronte ovunque: nelle periferie di Roma; nelle carceri; a Lampedusa dove con i migranti Francesco lanciò una corona di fiori in mare; a Lesbo con i profughi e i rifugiati; in Iraq dove recitò una preghiera di suffragio per le vittime della guerra; in Canada dove chiese perdono alle popolazioni indigene per gli abusi nelle scuole residenziali; in Giappone dove visitò Hiroshima e Nagasaki esprimendosi contro le armi nucleari.
Venne anche qui a Verona, dove pranzò con le persone detenute nel carcere di Montorio e partecipò all’incontro “Arena di pace”, di cui ricordiamo soprattutto lo straordinario abbraccio tra un israeliano e un palestinese.
Quelle scarpe ci parlano anche della sobrietà di papa Francesco, di un uomo che parlava spesso a braccio, che risiedeva a Santa Marta e non nell’appartamento papale, e che ha voluto essere sepolto in una tomba semplice, con la sola scritta “Franciscus”.
Eredità. Questa è dunque l’eredità che ci lascia: l’invito a parlare di pace con chi vuole la guerra; di perdono con chi semina vendetta; di accoglienza con chi sbarra le porte; di verità da cercare insieme con chi vuole dominare.
Per questo, ci sono ancora passi da fare, per noi e per chi verrà dopo di lui.

* Teologa e delegata episcopale per l’ambito della prossimità

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