Editoriale
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Denatalità record come quando eravamo in guerra

È davvero strano questo Paese nel quale ci è dato di vivere generalmente bene, o quantomeno discretamente (se la corruzione non fosse così diffusa e le tasse così elevate, mannaggia!). Strano perché se da un lato sull’incremento dei flussi migratori via mare si scatenano battaglie politiche interne tra partiti ed esterne con gli Stati membri di un’Unione Europea sempre più simile ad un palloncino acquistato gonfio alla fiera e ripreso in mano floscio dopo tre giorni, dall’altro non si fa una piega dinanzi ai dati dell’Istat che ci assegnano un record poco invidiabile...

È davvero strano questo Paese nel quale ci è dato di vivere generalmente bene, o quantomeno discretamente (se la corruzione non fosse così diffusa e le tasse così elevate, mannaggia!). Strano perché se da un lato sull’incremento dei flussi migratori via mare si scatenano battaglie politiche interne tra partiti ed esterne con gli Stati membri di un’Unione Europea sempre più simile ad un palloncino acquistato gonfio alla fiera e ripreso in mano floscio dopo tre giorni, dall’altro non si fa una piega dinanzi ai dati dell’Istat che ci assegnano un record poco invidiabile. Infatti il movimento naturale della popolazione nel 2014 ha toccato il picco abissale in oltre 150 anni di storia italiana, con un saldo negativo tra nati e morti di 95mila unità, secondo solo a quello del biennio 1917-18, quando il nostro Paese era in guerra. Però se ci limitassimo a considerare soltanto i cittadini italiani, si arriverebbe a 165mila unità in meno. Ovvero in un solo anno sarebbe sparita una città come Livorno. Unicamente grazie alla prolificità dei residenti stranieri il dato sulla denatalità non ha assunto valori da esplosione nucleare. Anche se va detto che pure gli immigrati, che assommano a poco più di 5 milioni, pari all’8,2% della popolazione e per oltre la metà si tratta di cittadini europei, fanno meno figli (5mila nati in meno rispetto al 2012).
Secondo i sociologi è tipico di un Paese moderno in tempi di crisi economica e valoriale disinvestire sulla prole, in quanto limitandosi le speranze (ovviamente ancorate soltanto al benessere economico) far nascere un figlio diventa un gesto eroico. Ma in questo modo si nega il futuro a se stessi e alla società, se è vero come è vero che tra qualche decennio una porzione ridotta di persone in età lavorativa sarà chiamata a mantenere una quota notevole di popolazione anziana, con grande gioia (si fa per dire) di chi sarà chiamato a gestire le politiche del welfare.
Ma se non bastasse il saldo naturale tra i nati e i morti in una società dove il numero medio di figli per donna è di 1,39, rispetto ad una soglia minima necessaria di 2, va anche detto che sono sempre più gli italiani che emigrano (90mila) rispetto a quelli che rientrano dall’estero (meno di 30mila). E di solito si tratta di giovani laureati che nel nostro Paese non trovano posizioni e retribuzioni adeguate.
Questi e molti altri sono segnali che non da oggi dovrebbero risuonare come dei campanelli d’allarme nei confronti della politica nazionale che invece pare essere in perenne campagna elettorale. Quindi alla lungimiranza, alla necessità di porre oggi solide basi per costruire il futuro del Paese, mettendo in atto politiche volte a favorire concretamente le famiglie e la natalità, si preferisce dibattere sul +0,1 o il -0,1% del Pil o scannarsi sulla questione dei richiedenti asilo. Se si continuerà a guardare al dito puntato, anziché alla luna è sin troppo facile profetizzare che quando sarà ora di chiudere la stalla, ci accorgeremo che i buoi saranno già fuggiti.

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