Attilio Nicora un Vescovo dalle grandi vedute
Alle ore 20 di sabato 22 aprile il cardinale Attilio Nicora è passato da questo mondo al Padre. Come suo successore sulla Cattedra di San Zeno e suo prete di un tempo sento il dovere di esprimere alcuni sentimenti a caldo. Vorrei quanto meno sfatare di lui lo stereotipo che lo ingessa nell’otto per mille, come se Attilio Nicora meritasse di essere tenuto vivo nella memoria esclusivamente per questa ragione. È di molto più elevato profilo...
Alle ore 20 di sabato 22 aprile il cardinale Attilio Nicora è passato da questo mondo al Padre. Come suo successore sulla Cattedra di San Zeno e suo prete di un tempo sento il dovere di esprimere alcuni sentimenti a caldo. Vorrei quanto meno sfatare di lui lo stereotipo che lo ingessa nell’otto per mille, come se Attilio Nicora meritasse di essere tenuto vivo nella memoria esclusivamente per questa ragione. È di molto più elevato profilo. Certo, era un giurista di riconosciute capacità professionali, di cui tutti avevano venerazione. Era stimato e perciò ascoltato anche dalle Autorità civili. In qualsiasi caso il suo intervento di giurista professionalmente attestato era salutato come risolutivo e perciò liberatorio.
Il cardinal Attilio Nicora non è stato uno qualsiasi. Bastino rapide e incomplete pennellate per tratteggiarne la personalità. Per parafrasare un verso famoso di Dante: “dalla cintola in su ne sopravanza una moltitudine”. Non era solo alto di statura, da longobardo, come si è autodefinito. Ma aveva una grande statura di personalità, al punto da incutere talora, in chi non era ancora entrato in confidenza con lui, un certo timore riverenziale, o almeno una certa soggezione. Anche i Grandi sapevano chi avevano davanti.
Aveva ricevuto da Dio il dono di una straordinaria intelligenza, potremmo dire dello sguardo dell’aquila che adocchia da lontano con nitidezza gli obiettivi da perseguire secondo il Vangelo e, insieme, aveva la determinazione propria di un ammiraglio che sa guidare la nave in mezzo agli sconvolgimenti del mare in tempesta. Era uomo di polso. Di governo. Anche se, al di là di apparenze non del tutto giustificate, sapeva ascoltare in profondità e mostrarsi paternamente sensibile.
Era così libero d’animo da permettersi di essere anche pubblicamente autoironico, come risulta dal discorso di commiato da Verona, nel quale si è autodefinito: “Vescovo laico, smagato, longobardo”.
Uomo di parola qual era, ci si poteva fidare senza riserve e si poteva contare su di lui. Lo si ascoltava volentieri, per l’acutezza geniale dei contenuti, per le argomentazioni argute, profonde e convincenti, ma anche per il linguaggio fluido, forbito, navigato come era nell’arte forense: parlava come scriveva e scriveva come parlava.
Capace di convivere con la