Condiscepoli di Agostino
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Abramo: la grande svolta generazionale

Nella narrazione delle generazioni, Agostino trova in Abramo uno snodo decisivo. E vi si sofferma. Perché in lui “si leggono più manifeste le promesse divine, che ora vediamo compiute in Cristo” (De civ. Dei, XVI, 12).

Parole chiave: La città di Dio (66), Sant'Agostino (175)

Nella narrazione delle generazioni, Agostino trova in Abramo uno snodo decisivo. E vi si sofferma. Perché in lui “si leggono più manifeste le promesse divine, che ora vediamo compiute in Cristo” (De civ. Dei, XVI, 12). Abramo, con i fratelli Nacor e Arran, è figlio di Tara, il quale, con i famigliari, lasciò la regione dei Caldei e si stabilì a Carran in Mesopotamia (Cfr. De civ. Dei, XVI, 13). A questo punto Dio disse ad Abramo, che aveva settanta anni, di lasciare la sua terra, assieme al nipote Lot (Cfr. De civ. Dei, XVI, 15.1). Ed ecco le promesse di Dio ad Abramo: “Lascia il tuo paese… emigra nel paese che ti indicherò e ti farò diventare un grande popolo, ti benedirò” (De civ. Dei, XVI, 16; Gen 12,1-3). Uscito dunque da Carran assieme al figlio del fratello, Lot, e con la moglie Sara, giunse a Sichem dove Dio gli promise in dono quel territorio (Cfr. De civ. Dei, XVI, 18). A causa della carestia scese in Egitto (Cfr. De civ. Dei, XVI, 19). Ritornati a Sichem si arricchirono con il bestiame che era grandemente aumentato. Lot preferì trasferirsi nel territorio di Sodoma, dopo che Abramo fece decidere al nipote la scelta, secondo una usanza per la quale al più grande spetta dividere e al più giovane scegliere (Cfr. De civ. Dei, XVI, 20). Nella terza manifestazione ad Abramo, Dio gli promette un vasto territorio e una numerosa discendenza, iperbolicamente paragonata alla sabbia del mare (Cfr. De civ. Dei, XVI, 21). Abramo emigrò a Mambre di Ebron. Nel frattempo scoppiò una guerra contro i Sodomiti che furono vinti. Abramo riuscì a intercedere in favore di Lot fatto prigioniero. Fu in quell’occasione, dal ritorno dalla guerra contro Sodoma che Abramo incontrò il sacerdote del Dio Altissimo Melchisedec che lo benedisse (Cfr. De civ. Dei, XVI, 22). A questo punto Agostino coglie l’occasione per ribadire la figura di Melchisedec presentata dalla lettera agli Ebrei, sulla cui autenticità d’autore, ma non sulla sua canonicità, lo stesso Agostino esprime perplessità. E rileva come per la prima volta in quella circostanza “si manifestò il sacrificio che ora viene offerto a Dio dai cristiani in tutta la terra e viene adempiuto ciò che molto dopo questo fatto per profezia si dice in riferimento a Cristo che si sarebbe incarnato: ‘Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec’, non cioè secondo l’ordine di Aronne che doveva essere abolito all’apparire luminoso delle cose che erano prenotate da quelle ombre” (Ivi). Nella quarta apparizione Dio promise ad Abramo protezione e come ricompensa una discendenza numerosa come le stelle del cielo, di cui l’uomo riesce a vedere solo una piccola parte (Cfr. De civ. Dei, XVI, 23). Qui Agostino appone l’aforisma biblico: ‘Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia’ (Ivi). Da Sara ebbe il figlio della promessa, Isacco, prefigurazione dell’ingresso dei pagani nella Chiesa. In questo figlio della promessa è significata la grazia e non la natura in quanto Isacco è figlio di un vecchio e di una donna sterile. Di qui l’assioma: “la grazia appartiene a tutti”. Tutto risuona di novità: “nel Vecchio Testamento viene adombrato il Nuovo. Che cos’è, infatti, ciò che si dice Vecchio Testamento se non occultazione del Nuovo? E che cos’è ciò che viene detto Nuovo se non la rivelazione del Vecchio?” (De civ. Dei, XVI, 26.2).
E giunge il momento della prova suprema di fedeltà obbedienziale a Dio: il sacrificio del figlio Isacco! Agostino rivisita l’evento in chiave allegorica. Ad esempio, come Isacco portò sulle sue spalle la legna del sacrificio, così Gesù portò la sua croce. L’ariete impigliato in un cespuglio era figura di Cristo coronato di spine (Cfr. De civ. Dei, XVI, 32.1). L’olocausto dell’ariete a maggior ragione simboleggiava l’olocausto di Cristo sulla croce (Cfr. De civ. Dei, XVI, 32.2).

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